‘A livella: sapienza napoletana e poesia di una maschera

'A Livella
'A Livella

Le poesie di Totò (non solo ‘A livella) rappresentano una tra le conferme più alte di una traditio che in tanti abbiamo presente, quando parliamo di attori, cinema, teatro…

Dunque, tradizione vuole che il volto del comico sia la punta di un iceberg che cristallizza in sé un magma di emozioni in cui la malinconia, il rimpianto, spesso la depressione e la stessa paura della morte ribollono a temperature altissime. Totò fu un uomo sapiente, nel senso che (come ci indica il latino) assaporò i più diversi e contraddittori moti dell’animo, e tutto portò sulla scena. Ma quest’ultima non era la sua unica “casa”: ‘A livella docet.

Un artista immenso, tra Peppino, Pasolini e ‘A livella

Siamo tutti riconoscenti al principe De Curtis per le risate spensierate di “Totò, Peppino e la malafemmena”. Ma lo siamo anche per le radiografie dell’anima regalateci dai primi piani del suo volto, anziano e straordinariamente espressivo,  nel pasoliniano “Uccellacci e uccellini”. E per gli sguardi duri e spietati dello jettatore de “La patente”, dal dramma pirandelliano. Le poesie, e ‘A livella, brillano come diamanti nascosti del repertorio del “principe”, dietro il suo viso ed il suo corpo perennemente “esposti” alle telecamere.

L’arte dei grandi comici come “domanda”

Totò. I suoi versi brillano nella notte, dalle luminarie all’ingresso del quartiere Sanità, il suo quartiere. Totò. Una maschera. La maschera, ad ogni latitudine, è racconto e domanda, già solo nel suo apparire, cioè anche nel silenzio. Filosofi ed antropologi del nostro tempo hanno provato a definire quello che è il mistero del principe De Curtis. Achille Bonito Oliva, anni fa, chiamò Totò “il Socrate dalla mascella deragliata”. Sappiamo che Socrate, per il pensiero occidentale, rappresenta il domandare, il dubbio che non finisce, lo sguardo che fa nascere in noi sempre altre domande.

E infatti Totò era potentemente “maieutico” in ogni suo minimo movimento ed atto. Le sue parole “inventate”, il suo sguardo “teneramente” obliquo, la mascella, appunto, che lo rendeva un po’ “storto”. Tutto, tutto era “domanda”. Un chiederci se non fosse poi ridicola la verità che ci eravamo creati. Marino Niola confermava: «Il suo personaggio era sghembo come il suo corpo. La sua faccia era un “qui pro quo”, esattamente come il suo “qui pro quo” linguistico».

Maschere e poesia: un legame inscindibile

Tutte le maschere napoletane, se ci riflettiamo, hanno fatto poesia. Hanno provato – e ben riuscito – ad elevare al cielo un canto. Totò, Edoardo, non hanno solo recitato, ma scritto vera e propria poesia. Ed anche Massimo Troisi, magari respirando ogni giorno la casa e la compagnia di Pino Daniele. Chi non ricorda i versi di “‘O ssaje comme fa’ ‘o core” del genio comico e drammatico di San Giorgio a Cremano? Ma, dopotutto, la maschera è poesia.

Come sottolineavamo prima, la maschera è domanda, e domanda difficile, non agevole da bypassare. In ogni film Totò ci scaricava addosso beffarde ma serie provocazioni. Con le parole imbrogliate, con i gesti esagerati, con gli sguardi ambigui e spaventati che parevano dire al pubblico: sei tu quello “storto”, quello ridicolo, quello strano che mi fa anche paura… Sei tu quello che ha pensieri annodati e stravolti, sospetti, mentre io sto solo sognando una enorme fetta di pane o i seni meravigliosi di quella donna… Domande… E, a questo punto, ricordiamoci di una cosa. Che cos’è una domanda? Una domanda è poesia.

La poesia e la morte

‘A livella potrebbe rappresentare, in questo senso, l’estremo sbeffeggio del grande attore napoletano. Il “Marchese Signore di Rovigo e di Belluno” che, al cimitero, discute animatamente con “Esposito Gennaro Netturbino” potrebbe racchiudere in sé non solo i “superbi”, o coloro che accumulano ricchezze come se le dovessero portar con sé nella tomba. Il Marchese, oltre a colui che non ci ha capito niente della morte (e dunque della vita), potrebbe rappresentare anche, in qualche modo, colui che non sa ridere…

Potrebbe, il nobile, simboleggiare tutti quelli che, con un sorriso stentato e offensivo, si son ritenuti superiori agli sguardi sghembi e surreali di Totò stesso, e a tutto hanno pensato tranne che a identificarsi nella tarantella sorridente di un povero cristo che si infila i maccheroni nelle tasche, dondolando su un tavolo.

Non era necessario sentirsi interpellati da quelle vicende; ma lo era sentirsi interpellati da quel volto. Ed ecco, allora, che se siamo davvero seri con noi stessi, se vogliamo seriamente fare letteratura, e porci con la letteratura davanti alla morte, ‘A livella la dobbiamo leggere ed amare. Altrimenti non avrà senso sapere a memoria, che so, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese, di quindici anni prima. Se “nuje simme serie”, dobbiamo lasciar parlare della morte anche Totò.

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