Andando per castelli

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Dal maniero di Bagnoli Irpino al donjon normanno di Casalbore: viaggio attraverso le rocche e le fortezze dell’Irpinia che segnano il percorso dai Monti Picentini al confine con la Puglia.

L’Irpinia non smette mai di affascinare il visitatore, ora con angoli suggestivi di paesaggi incontaminati, ora con immense distese di biondi campi coltivati a grano, ora con imponenti fortezze riportate a nuova vita o rocche abbandonate che sussurrano antichi segreti.  Percorro un itinerario che da Bagnoli Irpino conduce a Casalbore e mi accompagna il pensiero che sto vivendo un viaggio nella storia e nella cultura dell’Alta Irpinia, su fino al confine con la provincia beneventana e con quella foggiana.  E ancora immagino che i Monti Picentini, che attraverso provenendo dalla provincia di Salerno, siano per la Campania uno spartiacque, superato il quale si lascia il colpo d’occhio sul Tirreno per  gettare un primo sguardo sull’Adriatico pugliese: da mare a mare, andando per  castelli. Il mio itinerario inizia da Bagnoli Irpino, dove si può sostare per assaggiare la cucina locale, profumata del famoso tartufo bagnolese, e dove la Piazza è dominata dal Castello Cavaniglia, costruito sul poggio denominato “Serra” già in epoca sveva.

Nobile famiglia spagnola, i Cavaniglia raggiunsero l’apice della gloria con Don Garcia, al seguito di Alfonso I d’Aragona, da cui nel 1445 acquistò il feudo. Il figlio Diego Cavaniglia, conte di Montella e di Bagnoli, ha legato indissolubilmente il suo nome a queste terre, tant’è che oggi il castello viene chiamato “dei Cavaniglia”, anche se il primo impianto sembrerebbe risalire all’età longobarda. Storia, leggenda, racconti di fasti culturali e letterari si intrecciano nelle mura del castello, attualmente in fase finale  di restauro, per essere restituito alla cittadina in tutto l’antico splendore. Da Bagnoli, non senza prima aver visitato, nella Chiesa Collegiata di S. Maria Assunta, il famoso Coro Ligneo dichiarato Monumento Nazionale, proseguo per Sant’Angelo dei Lombardi, cittadina presente nel ricordo di tutti per essere stata una delle più colpite dal terremoto dell’80. Anche qui un maniero di origini longobarde, successivamente modificato in epoca normanno-sveva, arroccato su uno sperone roccioso nel centro storico della città. Alterne vicende lo hanno segnato, fino a divenire residenza dei nobili principi Caracciolo nel XVI secolo e in seguito dell’illuminato Principe genovese Placido Imperiale, per poi trasformarsi in abitazione gentilizia. Dopo il terremoto ha ospitato l’Archivio Notarile e gli uffici della Magistratura. Fuori del territorio urbano di Sant’Angelo, posto sulla dorsale rocciosa fra la valle del torrente Fredane e quella dell’Ofanto, mi spingo a visitare la mistica Abbazia del Goleto, con la Torre Febbronia, e proseguo per Rocca San Felice.

abbazia del goleto

Come il nome stesso del paese significa, il castello è arroccato su una collina da cui si domina la sottostante Valle d’Ansanto. Scopro un borgo di grande suggestione, paesaggistica, naturalistica e anche storica. Qui meglio che lungo tutto il mio itinerario ho la conferma di essere appieno dentro la storia e la natura dell’Irpinia, dove le antiche fortezze longobarde e normanne conservano ricordi di battaglie come di fasti mondani. La planimetria del primo nucleo urbano rivela un tipico caso di arroccamento dell’abitato intorno al Castello medievale, rifugio e protezione dalle scorrerie degli invasori. L’Irpinia, terra di feudi, baronie e principati, é infatti estremamente rappresentativa del fenomeno dell’ “incastellamento”, iniziato nel periodo delle guerre interne e delle incursioni saracene che seguirono la caduta dell’Impero Romano. Dall’VIII al XIII secolo i castelli, sorti come baluardi difensivi, concentrarono intorno a sé la vita del borgo e nel tempo divennero custodi dei beni dell’intera comunità, passando spesso di padre in figlio e divenendo simbolo, fino alla metà del ‘900, del potere della nobiltà di provincia. Della vasta area fortificata del Castello di Rocca San Felice sono ben visibili oggi, seppure in parte diroccati, il portale d’ingresso, le mura di cinta e parte delle costruzioni interne.

L’ampio piazzale alle spalle delle poderose fortificazioni ospitava le abitazioni degli artigiani e dei soldati. Un varco immette nel cortile centrale dal quale si accede alla torre cilindrica centrale, il donjon, costruita nel XII secolo su strutture preesistenti, con ogni probabilità databili al IX secolo. L’edificio, a quattro piani, assolveva a funzioni diverse: torre di avvistamento, abitazione del feudatario, cucina, deposito, cisterna. Alla Rocca è legata una leggenda popolare assai radicata, che vuole che nelle notti di luna piena il candido fantasma della principessa Margherita d’Austria si aggiri tra i ruderi del castello in cerca dell’amato sposo Enrico di Svevia. Enrico, accusato di aver appoggiato la ribellione dei feudatari tedeschi, venne condannato dal padre, l’Imperatore Federico II, a una vita di prigionia e dal 1236 il luogo della sua segregazione fu proprio la Rocca di S. Felice, dove visse sei anni, insieme alla giovane e devotissima sposa. Nel 1242, durante il trasferimento alla sua nuova destinazione, il carcere di Martirano in Calabria, Enrico trovò una misteriosa morte scivolando in un burrone. Per giorni e giorni la principessa si aggirò nei boschi senza riuscire però a rinvenire né il luogo dell’incidente né il corpo dell’amato. Da allora, nelle notti di plenilunio, il fantasma di Margherita riappare e continua la sua vana ricerca, senza pace.   A Rocca assaggio il pregiato pecorino Carmasciano, prodotto con il latte di ovini che beneficiano del pascolo caratterizzato dagli aromi provenienti dalla vicina Mefite, “infernale” sorgente termale al tempo stesso benefica e temibile. I boschi e le campagne circostanti, lussureggianti di verde in estate, in inverno presentano colori che farebbero invidia alla tavolozza di un pittore.

La prossima meta è Ariano Irpino, ma con una piccola deviazione mi reco prima a Gesualdo, con il possente Castello, risalente al VII secolo, che sovrasta la collina. Anch’esso, verso la fine del Cinquecento, fu trasformato in residenza baronale dal Principe Carlo Gesualdo, uno dei più famosi madrigalisti d’Europa. Lo avvolge un affascinante alone di mistero e di sangue. Si narra, infatti, che nel 1590 qui si rifugiasse il Principe dopo aver assassinato la moglie, la bellissima Maria d’Avalos, e l’amante di lei, il Duca Fabrizio Carafa, dopo averli colti in flagrante adulterio. Di proprietà privata, il Castello è parzialmente visitabile solo in occasione delle annuali “Giornate Musicali Gesualdiane”.  Ariano Irpino, penultima tappa dell’itinerario, esibisce sulla sommità del colle l’omonimo Castello, uno tra i più belli della regione. La sua posizione strategica a difesa delle valli dell’Ufita, del Miscano e del Cervaro, ne ha fatto una fortezza di eccezionale importanza, argine sicuro e inespugnabile contro le invasioni nel Regno. Di fondazione certamente longobarda, il castello ha subito numerosi ampliamenti e rifacimenti. La struttura oggi è in parte interrata, pertanto sono visibili e visitabili solo i piani superiori. A pianta trapezoidale, circondato da una doppia cinta muraria, il Castello è dotato di quattro torri troncoconiche agli angoli, comunicanti tra loro attraverso i camminamenti di ronda delle mura. Queste presentano feritoie e caditoie, dalle quali si rovesciavano sul nemico olio e pece bollenti, sassi e proiettili, intervallate da numerosi “orecchioni”, che permettevano alle milizie di comunicare velocemente tra loro. Sul lato sud, tra le torri della Madonna degli Angioli e Sant’Eliziario, si apriva un primo ingresso con ponte levatoio e fossato. Al centro della costruzione vi sono i resti dell’antico mastio, così alto, narrano le cronache, da consentire di scorgere il mare in lontananza. Intorno al Castello si estende oggi il lussureggiante parco della Villa Comunale di Ariano Irpino, custode di alberi secolari.

E’ tempo ormai di raggiungere l’ultima tappa del mio itinerario. Ancora un po’ di chilometri ed ecco Casalbore, su una delle colline che circondano la Valle del Miscano. Uliveti d’argento, campi che d’estate hanno il colore dei girasoli e del grano, e in alto, la torre normanna, il donjon quadrato costruito nel XII secolo e primo nucleo del castello, cui si accedeva attraverso un ingresso sopraelevato. Nel donjon dovevano trovarsi, secondo la tipologia propria di queste strutture, una cisterna per l’acqua al pianterreno e vari piani ripartiti da solai lignei. Le indagini archeologiche hanno evidenziato un fossato alla base della torre, dotata di un camino al primo piano e di servizi igienici ai piani superiori ricavati nello spessore delle mura. Nei pressi della torre è stata messa in luce una stratigrafia complessa, ascrivibile al XIII secolo, mentre non è ancora certa la cronologia successiva. Alle spalle della torre venne a crearsi una piazza d’armi circondata da mura e da altri ambienti, che si ampliarono nel tempo fino a disegnare una struttura complessa, abitata da famiglie notabili locali fino agli anni cinquanta del 1900. Il restauro del Castello, recentemente completato, ha restituito l’intera struttura alla fruizione pubblica. Sono infatti in programma l’istituzione di un Museo, che dovrebbe raccogliere i tanti reperti archeologici provenienti dal territorio di Casalbore, testimonianze di un insediamento ultramillenario. La Torre di Casalbore fu un importante avamposto a guardia del Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, e alla sua ombra si sviluppò una cultura materiale che ha ancora molto da raccontare. Qui, dove lo sguardo si rivolge al Tavoliere delle Puglie, ritorna, come in altri luoghi irpini, il legame con Napoli sotto il segno dei Caracciolo, che nel Rinascimento lasciarono la loro impronta anche in questo antico centro abitato fin dai tempi dei Sanniti. Fra fortezze longobarde, torri normanne e antiche leggende, il tempo vola via veloce. Chissà se i castelli dall’altra parte della provincia, dal Vallo di Lauro in avanti, regaleranno le stesse emozioni?

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