L’Anfiteatro Flavio fu fortemente voluto dai cittadini di Pozzuoli. La città era ricca, nel I secolo d.C., il tenore di vita era alto. Così Pozzuoli si autotassò per avere il suo “gioiello”.
A leggerne le caratteristiche architettoniche, l’Anfiteatro Flavio impressiona. Sugli spalti potevano trovare posto tra i 30.000 ed i 40.000 spettatori. È la capienza di molti moderni stadi di calcio. Ma soprattutto l’Anfiteatro era una “macchina” di ultima generazione. Dai labirintici sotterranei, agli “acquedotti”, ai sistemi di copertura, fino alla stratificazione degli spalti. Quando fu consegnato alla città di Puteoli l’Anfiteatro dovette apparire come un prodigio tecnologico.
L’Anfiteatro Flavio: orgoglio puteolano
Come abbiamo detto, l’Anfiteatro Flavio era una “miracolo” di meccanica, statica, tecnologia. Per costruire un edificio con le peculiarità che vedremo tra poco, nel I secolo d.C. c’era bisogno di una “barca di soldi”. Ma i puteolani volevano la loro “città” del divertimento, il punto di incontro di masse infinite che sarebbero giunte da tutta la Campania Felix. Sarebbe stato bello vedere, alle porte della colossale costruzione, i forestieri che alzavano il naso all’insù, rimanendo sbalorditi.
E allora gli abitanti di Pozzuoli decisero che “non c’erano santi”, come diremmo noi napoletani. L’Anfiteatro si doveva fare. A costo di pagarlo loro, i puteolani stessi. Iniziò dunque quello che oggi chiameremmo “autofinanziamento”. Si mise mano all’erario cittadino, probabilmente senza perder tempo in chiacchiere: i puteolani erano abbienti. O almeno molti lo erano di certo. La città era una “perla” del litorale flegreo, un “luogo” del benessere.
Ancora oggi si possono ammirare quattro lastre marmoree che attestano senza ombra di dubbio sia l’autotassazione che l’orgoglio di una cittadinanza che ci teneva a dire al mondo intero di aver fatto tutto “con le proprie forze”. L’epigrafe sul marmo recita così: Colonia Flavia Puteolana Pecunia Sua.
Come una “città della scienza”
Oltre ad essere enormemente capiente, così da consentire una “esperienza sociale” assolutamente simile a quella di una partita di calcio vissuta allo stadio o di un concertone, l’Anfiteatro Flavio era un capolavoro di ingegneria e di scienza architettonica.
Riguardo ai posti a sedere per il pubblico, quelle che chiameremmo oggi “curve” e “tribune”, la costruzione si sviluppava su tre livelli, la cui denominazione latina è molto chiara: la ima, la summa e la media cavea. L’enorme edificio era addirittura provvisto di un sistema di schermatura per la luce, che era utilissimo per il sole battente e le alte temperature estive. Esso consisteva in pali e vele controllati e “montati” nientemeno che dai marinai del porto di Miseno, uno dei più strategici dell’impero.
I sotterranei, poi, erano un mondo a parte. In essi dobbiamo immaginare i “protagonisti” degli spettacoli attendere con agitata impazienza, tensione, paura, di essere trasportati nell’arena. Questi spazi “underground”, ricettacolo drammatico di esseri umani condannati ad essere gli “attori” dei ludi gladiatori, erano, per una maligna ironia, un trionfo della tecnologia più avanzata.
Carrucole, ascensori, insomma “meravigliose” macchine se-moventi “lavoravano” in continuazione, i giorni degli spettacoli, per trasportare uomini e animali dal buio, pieno di sospiri e sudore, alla luce accecante dell’arena, esposti ormai alla vista e agli incitamenti delle migliaia di persone sugli spalti.
“Altri” giochi, “altre” meraviglie
Uno dei “divertimenti” più “grandiosi”, spettacolari e complessi da preparare, tra quelli che avevano luogo negli anfiteatri, e dunque anche nell’Anfiteatro di Pozzuoli, , era la naumachia. Vere e proprie “battaglie navali” che si “consumavano” tra vere imbarcazioni dotate di equipaggio e galleggianti su volumi d’acqua immensi, contenuti incredibilmente nello spazio dell’arena.
Per rendere possibile uno spettacolo simile, che ci lascia ancora oggi a bocca aperta – al solo immaginarlo – era necessaria la dotazione di infinite tubature che portassero l’acqua nell’Anfiteatro, dai laghi o dai fiumi. Ebbene, il Flavio era collegato direttamente con l’Acquedotto Flegreo, e dunque una vera e propria cascata d’acqua si riversava, come da un enorme rubinetto, nell’Anfiteatro, colmandolo come una vasca da bagno.
Questo fluire controllato d’acqua dai Campi Flegrei serviva anche per la “pulizia” dell’arena, la quale, sottoposta al getto proveniente dalle tubature provenienti dall’Acquedotto, poteva essere nettata e resa come nuova, cancellando le tracce dei combattimenti precedenti. E tutto era pronto per nuovi spettacoli.
La “tragica verità”
In questi “capolavori” di ingegneria ed edilizia, come sappiamo, accadeva anche qualcosa di terribile. E l’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli non fu “risparmiato” da questi “eventi”. Noi del 2000 non dobbiamo, con snobismo culturale, sentirci migliori degli uomini di alcuna epoca: siamo capaci, ancora oggi, delle più efferate crudeltà, e siamo capaci anche di “goderne”.
Ancora oggi, in alcuni paesi, gli stadi sono “teatro” – sembra un gioco di parole – di esecuzioni capitali, con il pubblico presente sugli spalti. Dunque dobbiamo limitarci a raccontare i fatti, perché fare storia vuol dire “raccontare l’uomo”, non “giudicarlo”. Altrimenti non è più “storia”, è altro.
Ricordiamo una delle “esecuzioni eccellenti”, potremmo dire, che ebbero luogo nell’Anfiteatro di Pozzuoli: quella dei cristiani Gennaro (il nostro san Gennaro) e dei suoi compagni puteolani. La loro condanna era detta “damnatio ad bestias”. La “memoria comune” dei fedeli tramanda la storia secondo cui, nel Flavio, successe l’incredibile.
Pare che le bestie che dovevano sbranare Gennaro e compagni si siano inginocchiate davanti a loro, rese docili e calme. Questo episodio non salvò il vescovo Gennaro, che fu poi condotto alla pena capitale alla Solfatara. In ogni caso, nell’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli iniziò l’eterna “storia d’amore” tra il martire Gennaro e Napoli.