Quando ero piccola, trascorrevo spesso la domenica mattina nei musei napoletani, inserita, insieme ai miei fratelli, in una sorta di progetto educativo culturale, con cui i nostri genitori miravano ad infonderci una conoscenza della città, e della sua storia, attraverso le sue collezioni. Contemplando – in tempi che ci apparivano interminabili – dee, imperatori, fanciullini, matrone, provenienti da Baia, da Stabia, da Pompei, mi ritrovavo a fissare le loro figure in cerca di un particolare, un segreto, che desse ragione della distanza, che percepivo nettamente, da noi. L’operazione che facevo più di frequente consisteva nel contare le dita dei loro piedi e di verificare che fossero proprio cinque, come le nostre. Ovviamente non ero mai stupita del risultato, scontato (sì, erano cinque!), e continuavo ad effettuare tale verifica in attesa di una smentita, prima o poi.
Questa abitudine faceva sì che di una statua, ad esempio, guardassi prima di tutto i piedi e, se c’erano, le scarpe. Imparai presto che queste non erano tutte uguali: alcune apparivano come i nostri sandali, altre invece erano più simili ai nostri stivali. Anche i Romani amavano cambiare forme e modelli e consideravano le calzature veri e propri status symbol, soprattutto perché schiavi e umili camminavano scalzi. I nobili indossavano infatti i calcei, abbinati alla toga, che coprivano il piede fino alla caviglia; fra questi i senatori sfoggiavano alti gambali di pelle nera e morbida, una sorta di stivali, chiusi lateralmente da quattro stringhe, in mancanza di una comoda zip. I vertici della gerarchia sociale portavano un tipo di calceus detto mulleus, di un raffinato cuoio rosso; i cittadini comuni, invece, il pero, in grosso cuoio tipico di contadini e montanari.
Anche allora le mode condizionavano gli stili, soprattutto se provenienti dall’estero (Gallia, Grecia e Egitto esportarono con successo a Roma le proprie calzature, gallicae, crepide e bazae): il calceus fu sostituito dalla caliga, un sandalo vero e proprio che lasciava il piede scoperto, nato come calzatura militare, in quanto poggiante su una suola piuttosto robusta su cui erano piazzati fitti chiodi ( l’ho visto ai piedi dei soldati ritratti sulla colonna Traiana a Roma); e poi apparve il campagus, immortalato ai piedi di Giustiniano nella chiesa di San Vitale a Ravenna, sebbene lì ornato di gemme e ricami preziosi.
Curiosamente anche scrittori importanti, come Catone, Cicerone, Giovenale, rivolsero la loro attenzione alle estremità, ora per puntare il dito sull’eccessivo lusso dei costumi (di Eliogabalo, ad esempio, si diceva che non indossasse mai due volte lo stesso paio di scarpe); ora per vagheggiare l’austerità degli avi; ma anche perché intorno al gesto quotidiano dell’infilarsi i calzari vi era una ricca scaramanzia, cui non si sottrassero neppure gli imperatori, a cominciare da Augusto, giunta fino a noi: portava male infatti scendere dal letto con il piede sinistro, starnutire nei calzari, oppure indossare quello sinistro col piede destro, trovare infine al mattino il sandalo rosicchiato dai topi.
Ritratti nei loro scritti o colpiti dai loro strali in versi, più d’una volta troviamo calzolai, che hanno fatto fortuna, magari con la vendita all’ingrosso di calzature fornite all’esercito, come in questo famoso epigramma (9.73) di Marziale: “Tu, solito a stirare con i denti pelli di ciabatte già consunte ed a mordere una vecchia suola infradiciata di fango, ora possiedi i campi prenestini del defunto patrono… Or sbronzo di Falerno generoso, infrangi belle coppe di cristallo”. Il poeta critica l’ostentazione di nuova ricchezza per rammaricarsi della sua condizione di uomo di cultura, che frequenta retori e grammatici, ma con pochi guadagni: “Spezza, o Talia, le penne mie leggere e lacerami i libri, se una semplice ciabatta può dar codesti beni a un ciabattino!”.