Trenta anni fa quando iniziai a fare fotografia non immaginavo che quel “fare” sarebbe diventato la mia nuova vita. Capii subito che la fotografia faceva di me un uomo migliore e che l’apparecchio fotografico era uno straordinario mezzo di conoscenza. Ebbi così un dono. E negli anni a seguire ho custodito il dono della fotografia, preservandolo da tutto ciò che poteva contaminarlo.
Catapultato a Napoli giovanissimo, sono stato accolto dalla città. Erano gli anni Ottanta e c’era un bel fermento. La scena teatrale e quella dell’arte erano molto vive. La fotografia cominciava a cambiare volto, cominciava ad avere una considerazione e un ruolo diverso, anche a Napoli. Ecco, è in questo contesto che io ho trovato accoglienza. Senza quest’apertura all’altro un giovane come me, timido e introverso, intimorito da un contesto metropolitano che non comprendeva, non avrebbe mai avuto spazio.
Oggi restituisco quello che mi è stato dato, perché non ha senso che sia io solo a salvarmi. Metto a disposizione le mie conoscenze, affinché sia dato spazio e possibilità ad altri di fare buona fotografia attraverso un Laboratorio ispirato ad Antonio Neiwiller, protagonista negli anni Ottanta della scena teatrale italiana e scomparso prematuramente venti anni fa.
Ho migliorato il mio modo di lavorare assistendo per anni ai laboratori di Neiwiller e applicando i suoi metodi teatrali alla fotografia. È stato il mio maestro di fotografia e mio caro amico.
“Il laboratorio di Antonio Neiwiller è lo stimolo a solleticare corde interne del pensiero e dell’emozione, affinché diventino epifanie pure e scarnificate” (Leo de Berardinis).
I suoi metodi puntavano dritto all’essenza delle azioni. La prima volta li applicai in una stalla in cui vi erano poche mucche. Mi accorsi che lo stesso soggetto fotografato e ri-fotografato per un lasso di tempo notevole produceva immagini sempre più scarne ed essenziali, permettendomi di avviare un dialogo-confronto col soggetto, che si esauriva quando il mistero di quel gesto ossessivo cominciava a svelarsi, a essermi chiaro.
Il Laboratorio produce immagini essenziali, nelle quali l’autore può trovare una parte di sé; sono immagini che si aprono all’altro. Scoprii che i soggetti portati all’essenza tendono a somigliarsi e così accade che soggetti diversi possono naturalmente convivere all’interno della stessa ricerca; capii che la fotografia era un mezzo senza limiti e al tempo stesso una pratica esistenziale, capace di stare perfettamente in sintonia con il proprio mondo interiore.
Capii che non era necessario portarsi dietro una macchina fotografica per fare buone fotografie: la macchina distrae e non fa vivere direttamente l’emozione. Al contrario, un gatto che attraversa la strada colpito da una luce particolare è un’esperienza emotiva vissuta completamente: quell’emozione si può ritrovare proprio nel Laboratorio fotografando tutt’altro, riversando sentimenti accumulati, sedimentati, raffinati.
Questo accade perché spesso la fotografia non permette di vivere profondamente un contesto, ma solo parzialmente. La mia fotografia è profondamente la vita che vivo e non quella che ho visto attraverso l’obiettivo.