“La mia fotografia è cresciuta in una Napoli che mi parlava del resto del mondo”
Se hai vissuto a Dragoni, vicino Caserta, tutta la tua adolescenza, e poi ti sei trasferito a Napoli negli anni Ottanta per frequentare l’Università, una macchina fotografica può essere una lente di ingrandimento privilegiata per un animo sensibile ed acuto: Antonio Biasiucci, classe 1961, nel capoluogo campano ha scoperto, in maniera quasi casuale, la grande passione di una vita intera. Figlio di un fotografo di matrimoni, cresciuto a contatto con la realtà sanguigna, immaginifica e suggestiva del nostro entroterra regionale, Biasiucci, al suo arrivo giovanile a Napoli, ha avvertito un corto circuito creativo, che ci racconta così: “Ho avuto un approccio terapeutico con la fotografia: inseguire un’idea e scattare un’istantanea significava, per me, fare i conti con la mia memoria ed il mio passato. Non avevo ancora una formazione teorica rispetto a quest’arte, ma sentivo che era necessaria per stabilire un contatto più intimo con me stesso”. Sono passati tre decenni, Biasiucci è stato insignito di numerosi riconoscimenti internazionali (tra questi, merita ricordare i premi “European Kodak Panorama-1992”, “Kraszna-Krausz Photography Book Awards-2005” ed il “Bastianelli-2005”), eppure la base della ricerca rimane la stessa: “Napoli mi fornisce le suggestioni su cui indagare, ma le mie mostre, quasi sempre, iniziano in altre città italiane ed europee per poi approdare nei musei e nelle gallerie vicino casa. Anche i successi iniziali di fotografo li ho ottenuti all’estero, non nel mio retroterra culturale di riferimento: eppure, ogni volta che guardo a ritroso la mia carriera, non cambierei il laboratorio partenopeo con nessuna realtà, nostrana o straniera”. La crescita artistica di Biasiucci, infatti, non è pensabile senza un rapporto stringente con i grandi temi della filosofia mediterranea: “Non è mai sera” e “Vapore”, ad esempio, sono gallerie fotografiche di ricerca sull’antropologia legata al mondo meridionale, mentre “Stazioni”, il cui testo di accompagnamento fu scritto dall’indimenticabile Fabrizia Ramondino, è una prima indagine sulla dimensione metropolitana. Eppure, se il fotografo agisce a stretto contatto con il presente e le tradizioni locali, compito del suo lavoro è diffondere un messaggio atemporale ed universale: “Voglio che le mie immagini siano decontestualizzate ed intervengo per eliminare qualsiasi contatto con l’hic et nunc: la fotografia, come ogni arte, deve saper parlare a generazioni diverse in luoghi diversi, diventando il simbolo di un contraddittorio e perenne ciclo di vita”. Questo percorso di scavo richiede pazienza ed amore: “Uno dei miei grandi maestri è stato il regista Antonio Neiwiller, con cui ho collaborato dal 1987 sino al 1993, anno della sua scomparsa”, racconta Biasiucci, “egli aveva una prassi particolare di lavoro, perché dava agli attori l’incarico di studiare l’opera di un drammaturgo, reinterpretandola mille volte sino a quando non risultasse scarna ed essenziale. Così mi accade anche nel momento in cui inizio un progetto fotografico: ritorno su un luogo, lo osservo e lo esamino con attenzione, per poi ritrovare quelle immagini ed angolazioni che mi interessano. Un artista, d’altro canto, non deve avere mai fretta”. L’incontro e l’amicizia con Neiwiller sono lo sfondo ideale per la maturazione del percorso artistico di Biasiucci: il suo estro si confronta, testardo e minuzioso, con tanti “correlativi oggettivi” della fantasia, con simboli concreti di diverse componenti dell’esistenza. Così, in un sospeso incanto meta temporale, il vulcano, il pane, le vacche, ed, in seguito, gli ex voto, diventano le immagini di un viaggio fotografico senza parentesi di contestualizzazione: “Il tema del vulcano, su cui ho indagato alla fine degli anni Ottanta, mi suggeriva riflessioni sulle trascinanti energie della vita e, per questo, per declinare le infinite variazioni di un unico motivo, ho collaborato a lungo con l’Osservatorio Vesuviano. In seguito, tanti altri frammenti di vita mi hanno parlato al cuore: le vacche, animali emblematici della storia umana; gli ex voto, con il bagaglio culturale sacro e profano legato alla devozione popolare; ed il pane, con il suo incanto paziente e semplice.
Ognuno di questi soggetti è stato da me indagato quasi ossessivamente, per arrivare, poi, ad assemblare l’immagine finale”. Ed è stata proprio una nuova serie di fotografie legate al pane ad essere uno dei fili conduttori di due esposizioni di Biasiucci, sia al Magazzino di Arte moderna di Roma che al Museo di Capodimonte a Napoli; dopo aver pubblicato un volume dedicato al Rione Terra (Peliti&Associati, 2010), l’artista si prepara a solcare ancora, con entusiasmo, multiformi sentieri espressivi, tra passato e presente: “Ogni progetto di lavoro che ho portato a termine mi ha dato molto e non posso dimenticare, anche andando avanti, i retaggi di ciò che continuo ad apprendere grazie all’osservazione artistica ed alla sperimentazione tecnica. Eppure un orizzonte per me importantissimo è stato rappresentato dalla mia personale alla Maison Européenne de la Photographie nel 2012: sono stato infatti, ancora una volta, fuori Napoli per parlare di una realtà caleidoscopica, che è, nello stesso tempo, qui ed altrove”.