Nel febbraio 1638, Gianlorenzo Bernini mise in scena a Roma un lavoro teatrale. La sua idea di veridicità era così esplicita e acuta che volle mimare un’inondazione sì controllata, ma che diede comunque ai presenti l’istinto di alzarsi e fuggire, per paura di annegare. Gabriele Russo ha preso quella forza della natura e l’ha tramutata in forza della violenza umana che, nella sua Arancia meccanica, esplode altrettanto fisicamente da suscitare sofferenza e paura. Se nel teatro antico ogni forma di violenza era necessariamente compiuta fuori dalla scena, Russo la mostra deliberatamente e artisticamente, rielaborando l’opera in una brillante chiave estetica, ma senza mai perdere l’assonanza con il romanzo di Anthony Burgess e con il film di Stanley Kubrick. Nuovamente in scena dal 18 al 30 Novembre al Teatro Bellini, quello del regista napoletano è un lavoro che oscilla tra la traduzione e la creazione, tra la filologia e la reinterpretazione. La storia è quella di Alex De Large e dei suoi compari, annoiati ragazzi di un futuro distopico, che trascorrono il tempo tra crimini a base di “ultraviolenza”. Almeno finché Alex non è tradito dai suoi “drughi” e finisce in galera, dove è scelto per essere curato con il metodo Ludovico, ritrovato scientifico che promette di ristabilirlo, semplicemente insinuandogli il disgusto e l’insofferenza fisica verso il male. Ma Alex perde il controllo di ogni sua scelta, fino a divenire un’arancia meccanica, un fenomeno da baraccone alienato dalla tortura. Lo Stato che reprime i violenti, non disdegna di usarne gli stessi metodi per i propri scopi.
“Forse Dio preferisce un uomo che ha scelto il male, rispetto a uno cui il bene è imposto”, recita emblematico il sacerdote del carcere, unico personaggio dotato di una reale coscienza del bene. E su questo paradosso si snoda l’adattamento di Gabriele Russo, che mette sempre al centro la violenza, dapprima brutale e ironica, esibita liricamente, poi meschina e subdola, vestita di una ragion di scienza e di Stato senza deontologia. Il regista pone l’accento su un Alex quale icona di un male autodistruttivo, satirico, disinteressato e tremendamente vitale — la distruzione è il nostro inno alla gioia! — ma anche profondamente solitario. Non è un caso che i suoi stessi compari progettino di crescere, di passare dalla violenza occasionale al business, e che il loro capo li rimproveri di essere due “capitalisti”. La loro logica va a braccetto con quella apparentemente contraria del Governo; chiaramente quando i due “drughi” divengono poliziotti e massacrano Alex uscito di carcere, prendendosi la loro vendetta personale, giacché — dicono — la legge ha memoria e braccia lunghe (esattamente gli attributi della criminalità) e, dopo averlo lasciato a terra, si congedano con un agghiacciante: “Scusi”. Rinnegato da tutti e svuotato di ogni istinto, Alex è usato come arma politica perfino da uno scrittore sovversivo che si dichiara pronto ad aiutarlo, ma che dopo averlo riconosciuto come suo aggressore, gli infligge un’overdose di musica beethoveniana, divenuta da sublime ispirazione a peggiore sofferenza di Alex. Se la narrazione è chiaramente resa, Gabriele Russo crea e istituisce totem visivi per rendere altamente immaginifico quest’atto unico di violenza. E lo fa con le orchestrazioni scenografiche di Roberto Crea, semplici ma densissime: ad esempio la scena di bevuta del “latte più”, consumato cerimonialmente, e della sua stessa venerazione, con Alex e i suoi in una cabina-doccia di latte esibito contro il vetro.
Altre sono le scene legate alla possessione euforica beethoveniana, che raggiunge la sua acme nell’aggressione in casa dello scrittore. Russo fa agire i tre criminali in una cornice di colore, dove accedono e consumano pestaggio e stupro muovendosi al rallenty cinematografico, in un impressionante virtuosismo attoriale. Le musiche allucinate di Morgan, annodate al costante ripresentarsi di Beethoven, assieme alle luci scenografiche, costruiscono un lavoro di pose estetiche, coreografiche e iconiche, in cui l’immagine degli attori ha un suo doppio vitale nell’ombra sulle quinte. Ma forse il teatro si spiega meglio col teatro. Nel suo Berretto a sonagli, Luigi Pirandello fa pronunciare a Ciampa il celeberrimo monologo sulle tre corde umane: la “seria”, la “civile” e “la pazza”. Gabriele Russo ha girato la corda “seria” restituendo l’integralità di Arancia Meccanica senza sostituirsi a Burgess, con una cura appropriata anche del linguaggio: prima dello spettacolo è distribuito un glossario dei termini “Nasdat”, lo slang dei personaggi già fissato nel romanzo. Però ha sfrenato la corda “pazza”, creando un mondo di scena che è l’habitat in cui le vicende di Alex De Large calzano a perfezione. Il risultato è uno spettacolo mozzafiato, di grande levatura visiva, capace di accogliere anche chi non si è mai imbattuto nel romanzo o nel film, pienamente nella sintesi — per richiamare Pirandello — della corda “civile”.
con
Alfredo Angelici
Martina Galletta
Sebastiano Gavasso
Giulio Federico Janni
Alessio Piazza
Daniele Russo
Paola Sambo
costumi
Chiara Aversano
scene
Roberto Crea
disegno luci
Salvatore Palladino
di
Anthony Burgess
musiche
Morgan
regia
Gabriele Russo