Raccontiamo le storie (inventate o reali, chi lo sa) dietro le canzoni classiche napoletane. Oggi riascoltiamo e rileggiamo Brinneso, qui nella versione di Massimo Ranieri.
Brinneso è una canzone che racconta di brindisi poco felici, in nome di un amore forse mai corrisposto, sicuramente andato via.
Brindisi d’amore
Era il quarto bicchiere che arrivava al bancone del bar quella sera. O forse era il quinto, il sesto, nemmeno se lo ricordava…
La gente seduta al suo fianco rideva. Rideva con lui… o rideva di lui? Non lo sapeva e nemmeno gli interessava più di tanto. Però stava pagando da bere a tutti, anche a chi non conosceva. Uomini che gli davano pacche sulle spalle senza curarsi che quel corpo non accettava nessun contatto, almeno non quello…
Voleva stare da solo, ma aveva paura di stare senza nessuno. Era una contraddizione, come tutto quello che stava succedendo quella sera e nella sua vita. Era giusto che tutti sapessero, che lui lo dicesse agli altri che nemmeno conosceva, ma non che continuasse a tenersi dentro quello che con prepotenza voleva uscire fuori.
«Facciamo un altro brindisi!» annunciò con la voce tremante, un po’ per il nodo che sentiva ormai fisso alla gola e un po’ per il vino che lo rallentava. «Stavolta voglio brindare al mio amore!».
Brindisi d’odio
Un fragoroso applauso. I calici che si levavano al cielo, per poi svuotarsi nelle bocche dei presenti e riempirsi di nuovo poco dopo. Bevve anche lui e un po’ di vino gli colò dalla bocca per andare a macchiare un vestito già abbastanza malandato.
Ma il brindisi non era completo.
«Brindiamo al mio amore che oggi ha sposato un altro uomo senza preoccuparsi del male che faceva a chi davvero la ama!» boccheggiò con difficoltà, sorprendendosi di ciò che era appena riuscito a formulare.
Un altro fragoroso applauso e di nuovo tutti bevvero. Era chiaro che nessuno lo stesse davvero ascoltando. Nessuno aveva capito il suo dolore… ormai era persa, andata, per sempre.
Odiò in quel momento ogni cosa, anche le persone che erano andate al matrimonio di quella donna e senza nessuna parvenza di tatto gli avevano raccontato ogni particolare… ma del resto nessuno sapeva. Nessuno sapeva che l’amava.
Ora un gruppo di sconosciuti lo sapeva e non se ne curava affatto… a quelli importava solo di bere, solo di avere vino buono. Ma poi anche il vino finì, e uno alla volta, come partecipanti a una veglia funebre che volge al termine, tutti i presenti lasciarono il bar…
Casa sua
Finalmente andavano via… ma no, un attimo: lui non voleva stare da solo!
«Dove andate?! Ho pagato per tutti! Riportatemi a casa, almeno!» urlò a chi dal primo momento non l’aveva mai ascoltato, ma solo sentito.
Doveva andarsene da solo, magari da sua madre… lei l’avrebbe ascoltato, l’avrebbe capito, lei che nemmeno sapeva ed era convinta che il figlio fosse semplicemente un po’ indietro con i tempi nel trovarsi una donna, nel mettere su famiglia. Ma neanche sua madre meritava di vedere quel cadavere che era diventato, quella parvenza di uomo che rappresentava.
Una strana, folle idea si fece largo nella sua mente poca lucida… sì, poteva andarci. Sapeva dove abitavano ora i novelli sposi: le persone pettegole non avevano lasciato nulla al caso. Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma voleva andarci!
Barcollando, raggiunse la casa che cercava. Lesse i due cognomi sul campanello… una strana voglia di vita lo attraversò mentre la sua mano procedeva incerta verso il campanello. Ma poi si afflosciò, proprio poco prima di raggiungere l’obiettivo, così come si afflosciò il suo corpo sui gradini della porta di ingresso di quella che avrebbe solo voluto che fosse un giorno… casa sua.
Testo Canzone – Brinneso (1922)
(Testo di Libero Bovio, Musica di Nicola Valente)
Brinneso alla salute
dell’amirosa mia ca s’è sposata.
‘E ccummarelle meje, ca nce só’ ghiute
díceno che pareva una popata.
Ed indi poi noi li facciamo un brinneso
alla per noi difunda donna amata:
Vino vinello,
se per la donna il másculo è un trastullo
io ho stato l’Allirchino e il Purginello.
Mo rido e abballo,
e mme ne frocolejo della mia bella,
ché a queste scemitá nci ho fatto il callo.
Col calicio levato,
mme conto tutt’ ‘e llacreme chiagnute
per te, dorge ed indegno oggetto amato,
ca t’hê pigliato giuventù e salute.
Vevite amice: chisto è vino ‘e Proceta,
n’atu bicchiere e nce ne simmo jute,
Vino sincero,
ho detto al cuoro, al povero mio cuoro,
chiagne pe’ cunto tujo, ca i’ mo stó’ allèro.
Perché, a chest’ora,
mentre tu faje ll’Otello e ti disperi,
forse la signorina è già signora.
Mo ca stó’ frasturnato,
nun mme lassate sulo ‘mmiez’â via.
V’aggio fatto spassá, mi ho dispendiato.
Mo purtateme â casa ‘e mamma mia.
E alla mia vecchia, vuje ll’avit’ ‘a dicere:
“Questa crapa è tuo figlio”. E accussí sia.
Vinello puro,
mentre gli sposi stanno cuoro a cuoro,
che scherzo appresentarse dint’ ‘o scuro.
Alla signora
io lle direbbe: “Nun avé paura,
io sono un morto che cammina ancora”.