La Chiesa del Carmine, a Napoli, è uno di quei monumenti che, se potessero parlare, racconterebbero infinite storie. Infinite voci si rincorrono tra le sue pietre: richiami di venditori, brusii della folla in piazza, urla di condannati a morte.
I napoletani hanno l’abitudine di esclamare, davanti ad una notizia che li stupisce o sconvolge: “Mamma d’ ‘o Carmene!”. La Madonna Bruna, che abita la Chiesa del Carmine, è uno dei principali “appigli” del popolo nelle avversità e nelle situazioni difficili.
Storia della Chiesa del Carmine
Come sempre, esistono tante ricostruzioni per spiegare la presenza di una devozione così sentita come quella nei confronti della Madonna del Carmine. Mito, tradizione, cronaca, si fondono. Per quanto riguarda la Chiesa del Carmine, si racconta che l’immagine della Madonna scura fu portata a Napoli a cavallo tra la dominazione sveva e quella angioina, nel XIII secolo. Furono dei monaci, che vivevano nei pressi del Monte Carmelo, in Palestina, a far approdare l’icona di Maria sulle rive della città di Napoli. Questa immagine della Madonna era detta “Glicofilusa”, che vuol dire “dal dolce bacio”. La tenerezza già entrava nella storia della “Mamma” del Carmine.
Corradino di Svevia
Sulla sinistra della grande navata della Chiesa del Carmine, si distingue un sepolcro con la statua di un cavaliere, che indossa un abito lungo che caratterizza anche la figura di Federico II di Svevia che si trova sulla facciata del Palazzo Reale, a piazza Plebiscito. Si tratta di Corradino di Svevia, nipote dello stesso Federico. Corradino crebbe in una congiuntura storica davvero terribile, e a quattordici anni si trovò a dover scendere in Italia per riprendersi un regno che la sua casata aveva già perso, per mano degli angioini. Sconfitto, Corradino fu condannato a morte da Carlo d’Angiò, e decapitato proprio nella piazza del Carmine, e le sue ossa riposano sotto lo sguardo della Madonna Bruna. In questo senso il giovanissimo svevo è diventato una figura mitica, di cui tanti napoletani parlano con amara tenerezza.

I mercoledi della Madonna del Carmine
Fu Federico d’Aragona (1451-1504) a inaugurare la tradizione dei “mercoledi della Madonna del Carmine”, dopo che l’icona di Maria compì prodigi a Roma, dove era stata portata per l’Anno Santo del 1500. Una volta riportata a Napoli l’immagine mariana, Federico stabilì che mercoledi 24 giugno i malati del regno fossero condotti nella Chiesa del Carmine per implorare la guarigione. Questo giorno della settimana rimase per sempre nel ricordo e nel cuore dei napoletani, che continuarono ad “onorare” il mercoledi della Mamma del Carmine, riversandosi in folle infinite nella Basilica, assetati di grazie e di conforto. Nel 1916 Ernesto Murolo scrisse dei versi indimenticabili (‘O miercurì d’ ‘a Madonna ‘o Carmene) in cui ci descrive una di queste serate di uomini e donne ammassati l’uno all’altro, di pigia-pigia nella Chiesa del Carmine, di lacrime e sudore, di preghiere silenziose e di imprecazioni rabbiose verso il quadro della Madonna Bruna.
I napoletani e la Mamma Bruna
Il popolo napoletano è caratterizzato, da sempre, da un rapporto non soltanto “carnale”, ma diremmo “irriverente” nei confronti non solo dei santi, ma anche del “sacro” in senso più generale. Il napoletano parla a tu per tu con San Gennaro (faccia ‘ngiallenuta), ma anche con gli “spiriti” che appartengono alla morte. Il dialogo del popolo con i teschi delle anime pezzentelle, sotto la chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco oppure al cimitero delle Fontanelle, è indicativo della “tranquilla familiarità” col mondo dell’invisibile. Lì dove si dovrebbe avere un brivido, il napoletano si sente a casa propria. E anche le Madonne, tutte le Madonne, sono sorelle e mamme, sono anch’esse donne del popolo con le quali chiacchierare, arrabbiarsi, persino offendersi e “negare il saluto”, se necessario. Se le grazie, cioè, non arrivano. Ed è proprio quanto accade nel mercoledì cantato da E.Murolo.
Un mercoledì drammatico
Una donna dei ceti popolari, nelle strofe di Murolo, si arrampica praticamente fino ad arrivare nfaccia ‘a Madonna, nella Chiesa del Carmine. E, giunta lassù, sputa tutta la propria rabbia e il proprio dolore per il suo bambino, che è in fin di vita. Ella aveva perso già due figli. “Nun me fa murì pure a chist’ato / comm’ a chill’ati dduie./ Tu t’ ‘o tiene astrignuto ‘o Figlio tuie! / ’E miei me ll’hê luvate ‘a sott’ ‘o sciato!”. È una donna che parla ad un’altra donna. Una madre di carne che parla ad un’altra madre di carne. Sarebbe potuto succedere solo a Napoli.