‘Ciccio Formaggio’: riso di ‘macchietta’ fa buon sangue

Ciccio Formaggio
Ciccio Formaggio

Ciccio Formaggio è il titolo – già esilarante di per sé – di una ‘macchietta’ napoletana del 1940. Ma cos’è questa macchietta? A quale genere musicale appartiene?

Innanzitutto, ciò che è certo è che quando sta per avere inizio una macchietta in teatro si fa magicamente silenzio, le orecchie s’appizzano, il collo e il busto di chi è seduto in platea s’allongano, e in tutto il teatro comincia a formicolareuna voglia di ascoltare, di ridere. Una voglia di stare bene. E ‘Ciccio Formaggio’ è senza ombra di dubbio una di quelle azioni teatrali cantate e ‘gesticolate’ che ancora oggi, ben interpretate, ce ponno fà sulo salute.

Ciccio Formaggio e… ‘a bona riuscita di un termine linguistico

Prima di trattare di Ciccio Formaggio, cerchiamo di inquadrare la ‘macchietta’ nel proprio frammento di mondo musicale. Se consultiamo un’enciclopedia (ad esempio la Treccani) notiamo sùbito quanto sia sfiziosa la storia ‘letteraria’ del termine ‘macchietta’.

Nell’enciclopedia è sottolineata per prima cosa, con molta precisione, l’origine coloristico-pittorica del termine. D’altronde chiunque, istintivamente, legherebbe questa parola all’idea di uno schizzo di colore. Anzi, persino ad uno schizzo non voluto e sgradito: una piccola macchia di sporco. Tengo na macchietta ncoppa ‘a camicetta bbona… e mo?  Una ‘macchia’ (anche molto ridotta) è dunque per prima cosa una ‘traccia di sporcizia’: una macchia di sugo sul vestito, una macchia di vernice schizzata su un muro intonacato, ecc.

Dalla ‘sporcizia’ all’indizio, o al segno d’una presenza

La Treccani, poi, allarga sùbito l’orizzonte’ semantico della parola, ‘ri-accostandosi’ nell’analisi al mondo della pittura, già sfiorato più sopra, ma in un senso molto più tecnico e professionale. La macchietta, nel laboratorio di un artista, la troviamo praticamente ovunque, quale indizio vibrante e necessario di vita nell’ambito della totalità di ogni dipinto. Un tratto magari anche ‘confuso’, ma che ‘serve all’insieme’. Recita la famosa enciclopedia, definendo la parola ‘macchietta’: “Ognuna delle piccole figure accessorie, rapidamente schizzate, che il pittore introduce in paesaggi o vedute, per animarli”.

Prosegue il testo, rischiarando ancor di più i nessi che stiamo andando, pian piano, a trovare: “Per estensione, disegno a tratti essenziali e caratteristici; vignetta, caricatura”. (Tutti i grassetti compresi tra le virgolette sono miei).

Macchietta e ‘maschera’

Dunque la macchietta è – ci permettiamo di osservare – quanto di più simile all’aspetto fisso dellamaschera’ possa esserci nell’ambito di una scena teatrale. Nella pittura – l’abbiamo visto – macchietta può essere un puro ‘segno’, una pennellata leggerissima che ci permette però di distinguere, anche molto lontano dal ‘primo piano’, alcune caratteristiche universali – diremmo ‘ferme’, ‘immobili’ – di un tipo umano.

In verità la ‘macchietta’, in tal senso, non ha a che fare solo con l’umano: nel chiarimento ‘tecnico’ riguardante la pittura abbiamo compreso che una ‘macchietta’ può essere utilissima – nel microcosmo di un dipinto – anche per ‘intuire’ in lontananza un bue dietro un cancello, una volpe rannicchiata dietro un cespuglio, un mulino a vento o ad acqua i quali compiono, staccati dalla scena principale, il proprio lavorìo meccanico, contribuendo ad animare il paesaggio.

In prigionia dentro uno schizzo leggero

Ed eccoci dunque pronti per entrare nel mondo di Ciccio Formaggio, macchietta dello ‘spettacolo di varietà’ partenopeo interpretata, tra gli altri, da Nino Taranto e da Leo Brandi, attore napoletano fin troppo ‘obliato’ dalla critica, il quale è stato però reso immortale – come succede tante volte nel caotico e complesso mondo della finzione (cinema, teatro e tutto ciò che è ‘scena’) – da un frammento di un film con Totò.

Si tratta di Miseria e nobiltà, e il Brandi interpreta il ‘contadino analfabeta’ che detta una lettera allo scrivano (Totò), lasciandosi scappare, ad un certo punto, che non ha neanche i soldi per pagare la prestazione di chi gli sta compilando la missiva!

Taranto e Brandi (assieme a tanti altri, compresa ad esempio Gabriella Ferri) sono stati, dunque, Ciccio Formaggio. Hanno dovuto, perciò, indossarne le catene esilaranti che sulla scena rendono un corpo umano vivo ed espressivo simile ad un condannato alla ripetizione perenne di un gesto.

La ‘macchietta’ come cifra di un bisogno infinito (nella noia e nel dolore)

Ma i napoletani, noi napoletani, a volte vogliamo esattamente questo: abbiamo fame di vedere e rivedere all’infinito uno sguardo, un guizzo della muscolatura, un’espressione basita, un gesto volgare o ridicolo accennato o un ammiccamento malcelato. Se qualcosa ci fa ridere e stare bene, desideriamo che si ripeta e si racconti all’infinito. Noi, sì…Noi napoletani: come i bambini con le fiabe della buonanotte. E la macchietta, là, sulla scena, ci fa dimenticare tutt’ ‘o bbrutto ca ce sta. ‘O bbrutto ca ce purtamme dinto, e ‘o brutto ca ce vedimme attuorno.

In scena!!

Ciccio Formaggio è un uomo semplice, schietto, senza pretese eccessive dalla vita. Ha una compagna, anzi, meglio, una fidanzata, l’instancabile occupazione della quale pare, però, essere quella di ridicolizzare il compagno davanti a tutti… : ‘nnanze a tutt’ ‘o quartiere.

Dunque ciò che ci schiude la bocca e ci fa sussultare il petto è un riso ‘amaro’, in un certo senso. Non riusciamo a comprendere il perché di questo accanimento della donna nei confronti del proprio ‘fidanzato’.

Siamo nel 1940, ad ogni modo. L’anno di entrata in guerra dell’Italia. Il primo anno – per gli italiani – di quella tragedia senza fine che è la Seconda Guerra Mondiale.Ciò che a me viene in mente, mentre sorrido – forse anche poco – di questi versi, è l’angosciante senso di impotenza di questo personaggio-maschera-macchietta, che forse vede il mondo esser così crudele da non pensare neanche per un attimo di aver la forza di ribellarvisi. Foss’anche solo per sfuggire a quella porzione di mondo costituita dall’accanimento cattivo, stupido, di quella che dovrebbe essere la propria compagna nella vita. Ma forse la guerra e le paure vertiginose che essa porta con sé non c’entrano con questo martirio del povero Ciccio. O invece sì?

Si mme vulisse bene overamente…

Ciccio parla alla sua ‘amata’, alla sua ‘carnefice’, alla sua ‘illusione di una vita normale’. Ecco, sì. Forse quella di Formaggio è l’illusione di un’esistenza normale. Che tra poco anche la guerra verrà a sconvolgere. Perché anche quell’attesa illusa venga dimenticata.

Ecco i versi: “Si mme vulisse bene overamente/nun mme facisse ‘ncujetà da ‘a gente/ nun mme tagliasse ‘e pizze d’ ‘ paglietta,/nun mme mettisse ‘a vrenna int’ ‘a giacchetta./ Si mme vulisse bene, o mia Luisa,/nun mme rumpisse ‘o cuollo d’ ‘a cammisa […] .   (Vrenna vuol dir crusca… insomma, una manciata di cereali di certo fastidiosa se infilata nei vestiti…).

Si mme vulisse bene overamente/ […] nun mme tirasse ‘e pile ‘a dint’ ‘e rrecchie,/ nun mme mettisse ‘o dito dint’ a ll’uocchie,/ nun mme mettisse ‘a neve dint’ ‘a sacca,/nun me squagliasse ‘ncapa ‘a ceralacca […].

L’altro giorno, ma che scuorno./Vengo a casa e trovo a te/spettinata/abbracciata/’nziem’ a n’ommo. Beh, ched’è?

Mme rispunniste: chisto vene a te ‘mparà/comme se vasa/quanno tu mm’hê ‘a spusà…

Si mme vulisse bene overamente/ nun mme facisse ncujetà d’ ‘a gente,/nun mme pugnisse areto cu ‘o spillone,/nun mme mettisse ‘a colla int’ ‘o cazone,/ nun mme screvisse, cu ‘nu piezzo ‘e gesso/aret’ô ‘matinè’: ‘Ciccì sì fesso’…  (Il matinee era una vestaglia corta che si indossava, in genere, la mattina, prima di vestirsi).

[…]Sì ‘na ‘nfa’…sì ‘na ‘nfà… sì ‘na ‘nfama. / Te n’abu’…te n’abu’…te n’abuse… Te n’abuse ca Ciccio Formaggio /nun tene ‘o curaggio nemmeno ‘e parlà.

Ma è riso o… è altro?

M’immagino la platea che sussulta, che ride, che si lascia andare a manifestazioni d’ilarità anche un po’ sguaiate – chissà… – ma ciò che rimane alla fine di questa ‘macchietta’, forse, è più un senso acuto di malinconia, di impotenza, di pavidità che – perché no? – potrebbe essere germogliata proprio insieme al trauma dell’inizio di una guerra spaventosa, che ritornava, non saziata dal precedente pasto, a mangiare vite, a soli vent’anni o poco più dall’ultima follia europea.

Cicccio Formaggio non riesce neanche a parlare: è cacaglio, come diciamo senza pietà a Napoli. Chi lo sa, forse questo blocco gli è capitato in trincea, durante la prima guerra, lì sul Carso, o altrove… Sì… magari è stato soldato, durante la Grande Guerra. Ora vorrebbe solo una vita normale, una ragazza normale, degli amici normali. Ma ciò che lo circonda è il riso e l’ironia. E anche il male assoluto sta per tornare. Ciccio Formaggio, a volte, mme pare d’essere i’ stesso, quanno mme mett’ appaura: della vita, degli altri, di ciò che accade nel mondo.

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