Cristina Donadio ha gli occhi del colore del mare di Posillipo e uno sguardo ferino, ammaliatore. Chi ama il teatro la conoscerà come Little Peach o uno dei tanti personaggi perturbanti e favolosi della scrittura di Enzo Moscato. Ora sono tutti pazzi per Chanel, la boss di Gomorra cui la Donadio ha prestato corpo e voce. Andiamo a trovarla proprio a teatro, durante le repliche di Bordello di mare con città (di Enzo Moscato, regia Carlo Cerciello) al Bellini. Ci accoglie in camerino per una divertente chiacchierata.
Com’è iniziata la tua avventura teatrale?
Nella maniera più bizzarra, direi. Mi ero appena separata dal mio primo marito, ero molto giovane. Il mio amico Geppy Gleijeses portava in giro una sorta di cabaret. Serviva un personaggio femminile e andai io. In una di quelle sere estive, venne a vederci Nino Taranto e mi chiese di fare l’attrice giovane nella sua compagnia. Andai da mio padre e gli dissi: “Papà voglio fare l’attrice” e lui: “ok, ma per me sarai un’attrice solo quando avrai vinto un Oscar”. Voleva dire: vola alto. Ora che Chanel è diventata una statuina del presepe, mio padre sarà contento. È un Oscar anche quello. (ride)
Chanel arriva dopo più di trent’anni di cinema ma soprattutto di teatro.
Io divido la mia vita nei primi dieci anni e quello che è venuto dopo. Anche con Stefano (Stefano Tosi, marito della Donadio scomparso nel 1986 in un tragico incidente assieme ad Annibale Ruccello, ndr.) abbiamo sempre detto che se in questo tempo non sei riuscito a fare delle cose, allora si deve smettere. I primi dieci anni della mia vita sono stati ribelli e discontinui. Entravo e uscivo da una cosa senza neanche capirla e assorbirla. Ho lavorato con Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice, Carlo Hintermann. Mi chiamò Fellini per girare La città delle donne: ogni giorno ero pronta, truccata, vestita e lui magari pensava ad altro; era così, non c’era un piano di lavorazione. Però quegli anni non erano come oggi che vai a fare i provini con l’aiuto casting dell’aiuto casting… Entravi al teatro 5 di Cinencittà e c’era Federico Fellini con la sua vocina che ti diceva: “parlami un po’ di te” e nel frattempo disegnava e alla fine ti diceva: “ecco questo è il tuo ritratto”.
Nella tua lunga carriera teatrale quali esperienze ti hanno più formata?
È stato importante incontrare Mico Caldieri che negli anni in cui iniziai accoglieva tutti i giovani teatranti napoletani e li faceva lavorare con la tradizione, con me c’erano Silvio Orlando, Tonino Taiuti, Francesco Paolantoni, Patrizio Rispo, Antonella Morea. Faceva Commedia dell’Arte, per noi è stata una scuola. C’è bisogno di partire da un teatro “classico” per poterti poi allontanare. Con Enzo Moscato è stato così. Dopo i primi dieci anni è avvenuto il mio primo incontro con Enzo: da quel momento ho iniziato a rendermi conto di cos’è davvero il teatro. Erano appena morti Stefano Tosi e Annibale Ruccello, io all’epoca gestivo una sala al Vomero, il “Teatro delle Arti” poi chiamato il “Sole e la Luna”. Enzo venne a fare Occhi Gettati e ci ri-conoscemmo. Da allora non ci siamo mai più lasciati. Tutto quello che è accaduto è sempre stato con lui. La mia famiglia teatrale è quella. Dopo i primi dieci anni d’inconsapevolezza, l’incontro con Enzo è stato una rivelazione. Lo considero un fratello, di strada e di vita.
Arriviamo a Chanel…
Gomorra è una cosa a parte. Secondo me a un certo punto della carriera è un regalo avere un personaggio come Chanel tra le mani, perché è pieno di chiaroscuri. Io che faccio teatro da tanti anni l’ho considerata non una cammorrista ma una Clitemnestra. Mi sono avvicinata a lei come se fosse una Lady Macbeth, un archetipo, altrimenti avrei rischiato di farne una macchietta, cosa che mi spaventava da morire. Gomorra mi ha dato questa condizione di popolarità che per un’attrice teatrale è strana. Credo di avere la giusta distanza di sicurezza che mi viene da oltre trent’anni di teatro ma capisco che può dare anche uno sbandamento, se non sei preparato. Questa distanza mi permette di non far entrare Chanel a gamba tesa nella mia vita: non sarebbe giusto, significherebbe annullare tutta una serie di esperienze che mi sono costate lacrime, sudore e fatica. Io non ho cercato Chanel, è stata lei, quasi quasi, a venirmi a cercare. Per me era finita quando avevo fatto il provino per donna Imma e avevano scelto Maria Pia Calzone. E invece, dietro la porta c’era lei che diceva: “’O ssai perché mi chiammano Chanel?” (ride). Così ho scoperto di avere qualche demone dentro di me che ha fatto sì che potessi diventare Chanel, con una sovrapposizione totale. Perché io non faccio Chanel. Io sono Chanel… (sorride).
Foto di Daniela Capalbo