Da noi, per noi, il cibo è imprescindibile elemento dell’immaginario collettivo popolare: consumare i pasti seduti al tavolo familiare è elemento dell’educazione ed insostituibile momento di socializzazione. Ma il cibo non è solo quello sulle tavole imbandite: col cibo, noi, ci addobbiamo le strade. I banchi di frutta e verdura che occupano le vie con i loro colori ed odori; il pescivendolo che sporca con l’acqua delle sue vasche l’intera strada; l’ambulante che gira nel quartiere vendendo le primizie di stagione. Mercati alimentari con i banchi della macelleria esposti dove l’odore acre della carne cruda e del sangue entrano nel naso; vetrine di dolci e specialità salate messe lì a tentare il passante; le feste e sagre di paese dove le specialità del posto vengono offerte e consumate quale pegno della propria identità culturale.
Il cibo è per strada: guardiamo, tocchiamo, compriamo, scegliamo e mangiamo cibo in strada da sempre. Noi, popoli del Mediterraneo, siamo popoli “fisici”: dobbiamo vedere, toccare, sentire le cose, percepire le persone. Abbiamo pensieri che hanno una plasticità materiale che altrove è impossibile trovare. Ecco che anche il cibo, elemento vitale per eccellenza, nutrimento del corpo e dell’animo, deve esser visto, toccato, guardato prima ancora che mangiato. Ed è il cibo, con la sua carica violenta, primitiva a tratti sessuale, che invade le strade. Non solo le strade delle nostre città ma, anche, di quelle città che noi, erroneamente, non avvertiamo come nostre ma che, in realtà lo sono, non meno di quelle nelle quali abitiamo. Nostre perché bagnate da quello stesso mare calmo che, in modo materno, ci ha parimenti nutriti e resi figli distanti di una stessa madre. Ecco che quel concetto che potrebbe apparire “moderno”, il concetto che esprimiamo con idioma straniero “Street food”, si rivela esser antico ed avere una valenza ben più ampia di quella normalmente intesa.
Il cibo è per strada e con la strada e con coloro che vi passano viene condiviso, mostrato, offerto; il cibo è per strada tra le mani di coloro che decidono di consumarlo lì ed anche questo, grazie a quella ritualità che i nostri gesti sempre ammanta, diviene ulteriore modo di viver il cibo e di vivere il sociale.
Sotto un sole caldo dal quale si cerca riparo; gironzolando per le viuzze tra cui spira un’aria salmastra; frettolosamente camminando per le strade quotidianamente percorse; persi per le vie di una località dove la lingua non è la nostra anche se la sonorità è talmente dolce da esser incredibilmente familiare, decidiamo di fermarci e consumare, per strada, una qualunque strada che affacci sul Mediterraneo o ad esso tenda, una specialità del posto. Una pizza piegata su se stessa; del pesce fritto offerto in un “cuoppo” di carta unta; una “pita” dall’acre odore di cipolla; dei “falafel”.
I gusti potranno essere familiari o “forestieri”, tra gli ingredienti e nella preparazione potremmo ritrovare qualcosa di noi stessi o conoscere cose che ignoravamo ma, quel cibo di strada, quella pietanza esposta e consumata per strada, sarà parte di un rito che si svolge sotto il cielo del tempio più grande del mondo: il bacino del Mediterraneo. E come tutti i riti che si consumano nello stesso tempio, anche se diversi, anche se lontani, anche “il cibo di strada”, di qualsiasi strada si tratti, diviene elemento diverso attraverso il quale si declina un linguaggio primitivamente comune.