Diego Armando Maradona – Una Vita di petto

In un solo istante, come una bomba, deflagrò nel mondo la notizia della morte di Diego Armando Maradona.

Eppure solo poco più di venti giorni prima aveva compiuto i suoi sessanta anni e la notizia non aveva avuto la stessa eco della sua morte.

Perché accade questo ogni volta? Non era più bello e gioioso festeggiare Diego in vita piuttosto che tributargli gli onori con migliaia di pagine e pagine di giornali, servizi televisivi e messaggi e foto che hanno letteralmente inondato i nostri telefonini, ricordandolo come il più grande calciatore del mondo, come un giocoliere del pallone, come un eroe del Sud, come un Dio sceso in terra per estasiare con le sue magie tutti gli spettatori del mondo, non solo spettatori del calcio, o di un altro sport, ma della Vita, di quella Vita che Diego ha vissuto con intensità, senza mai risparmiarsi?

È degli uomini dimenticare, ed è ancora più degli uomini gioire per le debolezze altrui che sono occasione di critica e modo per manifestare invidia e odio.

Ma Diego questo lo sapeva e andava avanti per la sua strada di uomo maledetto, baciato inesorabilmente dalla magia che chiedeva, però, ogni volta, un conto salato, con puntualità quasi ossessiva.

Eravamo poco più che adolescenti, come Lui del resto, quando la domenica mattina, con più di cinque o sei ore di anticipo, ci recavamo allo stadio a bordo della Fiat 127 –  color quasi amaranto – di Vincenzo (più grande di noi e quindi patentato) per conquistare il posto nella Curva A e per vedere il nostro Mito galoppare sul campo come un cavallo mai domo, quasi a tagliare con la forza delle sue gambe il vento che attraversava.

Bastava un attimo! Un suo guizzo serviva a sbaragliare gli avversari e sguarnire le porte, come il più lesto di tutti gli acrobati… e quindi io, Ettore, Lello e Vincenzo non ci rivolgevamo la parola per tutti i 90 minuti per non perdere nulla dello spettacolo al quale assistevamo ‘inconsapevolmente’.

Oggi lo posso dire, ‘inconsapevolmente’, perché io non avevo capito che, oltre il calciatore più forte di tutti i tempi, Diego era un rivoluzionario forse non per scelta ma per destino.

Ed era un rivoluzionario militante, un Uomo che militava negli ideali dei partiti progressisti latinoamericani, anzi li impersonava, con parole e gesti, quegli ideali, perché non aveva dimenticato le sue origini, la fame, i sacrifici della sua famiglia e della sua gente.

E nel suo destino vi era scritto che sarebbe diventato un argentino napoletano, un Eroe della Napoli dei suoi anni che cercava riscatto e che ha ottenuto gloria, grazie alla forza di Diego ma anche al suo sregolato modo di essere.

Maradona è Maradona, così come è, prendere o lasciare, senza nessuna possibilità di interlocuzione con chi, se pure ti ascolta, sa che non può negarsi al suo destino ed alla sua vita spinta verso ogni tipo di eccesso.

È facile allora adesso osannare Diego come un Eroe del Sud, un Dio sceso in terra, un Mito che resterà nell’Eternità, come accade forse ogni mille anni nella storia dell’Umanità.

Forse ognuno di noi dovrebbe chiedere scusa a Diego per il male che Lui ha ricevuto quando la sua stella è sembrata eclissarsi, quando i suoi nemici hanno goduto della sua debolezza di uomo, quando è stato trattato come un criminale ed evasore alla stregua di un nessuno qualunque, così dimenticando che Diego non poteva che essere quello che era dentro, e che si manifestava senza finzioni, forse anche contro la sua volontà.

Andammo in auto, guidando più di diciotto ore verso la Germania, e precisamente alla meta di Stoccarda per prendere per mano, toccare immediatamente, la Coppa Uefa.

“Diciotto ore per amore”, così dissi a mia madre che ci vide partire con la macchina di Leo, e grazie ad Aurelio che stava con noi e che aveva procurato i biglietti.

Eravamo in tre e non ci stancammo nemmeno un minuto, presi da una adrenalina inspiegabile, perché fatta di scintille di magia, quella magia che stavamo vivendo in quegli anni grazie ad una squadra fatta di Campioni, e soprattutto diretta da Lui.

Eppure i sessantamila al San Paolo per il saluto al Re di Napoli, erano scomparsi quando dovette lasciare la città di Napoli nottetempo, per poi farvi ritorno dopo più di sette anni grazie anche all’avvocato Pisani che è entrato subito nel suo cuore… perché Diego sapeva distinguere il bene dal male.

Diego ha avuto grandi riconoscimenti in vita; ha vinto tutto, ha realizzato i suoi sogni che sono stati pure i nostri, ma era un Uomo che il destino aveva deciso dovesse vivere nel chiasso di una solitudine assordante, nella maledizione di un folla famelica e nella tristezza dei numeri uno.

Ma nella vita questo purtroppo e per fortuna non si sceglie e quindi Diego è stato un predestinato a vivere una Vita di petto, mettendoci cioè sempre la faccia, pagando a caro prezzo il suo essere Eroe.

Tra tutti i riconoscimenti che il Mondo gli ha tributato, a me ha colpito quello della squadra di rugby neozelandese All Blacks che gli ha dedicato la danza Haka dalla cultura maori.

Sono certo che Diego ne sarebbe stato felice perché è una danza suonata con mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua e occhi che sono quelli che Lui ha usato per vivere e distruggersi, per amare e per difendersi dall’odio, per stare sempre sul filo del rasoio come un funambolo tra la Vita e la Morte.

E sono certo che Lui avrebbe avuto la stessa mia emozione a vedere la danza Haka che gli è stata dedicata dopo che il Capitano della squadra aveva deposto al centro del campo una maglia degli All Blacks con avente il numero 10 e con stampato sopra il suo nome, perché la danza significa sfida, esultanza, passione, orgoglio, vigore e soprattutto perché è un messaggio dell’anima. Perché in quella danza il protagonista era Diego.

Adesso c’è un forte momento di commozione che ci unisce per quello che abbiamo dentro e che ci lega per sempre a Lui… come quella volta del primo scudetto, quando, usciti dallo stadio, camminammo fino a piazza del Plebiscito senza fermarci, ebbri, errando in infiniti momenti di piena gioia.

Diego adesso non ci sei più ma è proprio adesso che il Tuo essere immortale si manifesta ancora di più.

Batti le mani contro le cosce / Sbuffa col petto / Piega le ginocchia / Lascia che i fianchi li seguano / Pesta i piedi più forte che puoi / È la morte, È la morte / È la vita, È la vita / Questo è l’uomo peloso… / è colui che ha fatto splendere il sole su di me / Ancora uno scalino, ancora uno scalino / un altro fino in alto / Il sole splende! / Alzati!

Così ti hanno salutato gli All Blacks con visibile commozione, dedicandoti le loro religiose parole.

Non è un caso che Diego è morto il 25 novembre. Lo aveva scritto nel suo destino e forse Lui lo sapeva ogni qual volta incontrava Uomini immensi come Lui.

Ti saluterò con il pugno chiuso in senso di rispetto e di appartenenza, e scusaci, Diego, per non averti capito fino in fondo, per averti deriso, per averti lasciato solo, per averti fatto morire con gli occhi tristi di chi ha sofferto ogni gioia che ha procurato.

Ma questo è dei Geni, dei Predestinati, dei Miti, degli Eroi e tu evidentemente lo hai sempre saputo da quando masticavi la polvere delle strade della tua Villa Fiorito.

 

© Tutte le foto sono di Sergio Siano

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