Qualche sera prima della vittoria dell’Oscar di Paolo Sorrentino, con il film “La grande bellezza”, nel foyer del Teatro San Carlo, una sinfonia di ogni arte, per ricordare i venti anni dalla morte di Domenico Rea. Fortemente voluta, qui, dalla figlia, Lucia Rea, anfitrioni il direttore artistico del Teatro, Vincenzo De Vivo; lo scrittore Francesco Durante, curatore del ‘Meridiano’ dedicato a Rea; l’attore Toni Servillo.
Rea, pur sorta di membro della ‘trimurti’ Compagnone-Prisco-Rea, non fa parte di alcun ‘sodalizio’. Forse per la sua formazione (o non formazione), forse per aver vissuto un certo tipo di ambiente-plebe, popolo? Non catalogabile, forse, a dispetto della sua apparente aggressività, per aver saputo, con intelligenza sapienziale, assaporare il midollo di chiunque potesse essergli mentore, forse per essere sempre stato, fin da ragazzino, ‘topo di bancarelle librarie’, specie a Salerno. Forse per aver vissuto una grande libertà, a Nocera e dintorni, dai tre anni sino ai ventotto, intervallata, o completata, da soggiorni a Milano – determinanti, qui, gli incontri intellettuali; a Napoli, con amicizie con Compagnone, Flora, Prisco, Annamaria Perilli, sua moglie dal ’49. Breve periodo in Brasile ma concentrazione e lavoro agognati tardano a venire. Ritorno e trasferimento a Napoli ove trova un impiego alla Sovrintendenza alle Gallerie d’Arte.
Intanto, 1947, Mondadori pubblica il libro di racconti, “Spaccanapoli”, osannato dalla critica ma non dalle vendite. Dentro e fuori le mura, per così dire, dove camminano Boccaccio e Basile; De Sanctis e Mastriani. Quando, 1986, viene ripubblicato, Felice Piemontese scrive di “alcune delle pagine più belle, in assoluto, del Novecento letterario italiano. Ma – aggiunge – quasi con rabbia rimprovero a Rea di avere in qualche modo sperperato un talento straordinario che, opportunamente sollecitato, ne avrebbe fatto scrittore tra i primissimi a livello europeo (…). Soprattutto del suo aver ceduto alle facili tentazioni di una città capace, del resto come nessun’altra, di avvilupparti e di confonderti, di estenuarti e di farti perdere il contatto con quel che avviene altrove”.
Non vi sembra di poter lanciare un filo di Arianna tra queste parole e “La grande bellezza”? Pensando alla magia della serata sancarliana, uno straniamento dei sensi: Toni Servillo-Jep Gambardella ha letto da par suo alcuni brani dello scrittore e ha commentato il prezioso, piccolo, ‘livre de chevet’ scritto da Rea stesso, “Note sulla musica”, 1966.
Infatti, nel silenzio assoluto preteso ed ottenuto mentre scriveva, ecco che, dice la figlia, “poi scriveva sempre con la musica a tutto volume. Credo che in lui ci fosse una segreta aspirazione, come se fosse un compositore mancato” o “come ogni grande scrittore – ha sottolineato Durante – Rea aveva la musica innata dentro di sé”. Ci permettiamo di sostituire a ‘scrittore’ la parola ‘artista’. Tout court. Pittore, filosofo, scultore, matematico.
E, dunque, se “La grande bellezza” ci racconta disincanto e malinconia, fremiti di landscape e silenzi attraversati dall’inutile presenza-assenza di una certa classe sociale romana e non solo, sottolineata dal dandy triste, amaramente sincero Gambardella, ci sarebbe piaciuto molto ‘vivere’ una sorta di controfigura, quella del dandy Rea, elegantemente provocatore nei suoi silenzi e nelle sue rabbie improvvise, “nato in una famiglia semianalfabeta, con nessun uso di libri o di scuola – come racconta in una lontana intervista – cominciai a scrivere intorno ai quattordici anni, una delle peggiori disgrazie che potesse capitarmi. Comunque (…) è uno dei lussi che si permette l’umanità”.
Nato e morto a Napoli (1921-1994), padre di Nocera Inferiore, la mitica Nofi, ex carabiniere per alcuni biografi, ‘vagabondo’ di mille mestieri per altri, il vero sostegno familiare fu la madre, già a sei anni ‘corallina’ di Torre del Greco, occupazione assegnata dal destino della cittadina marinara. Ma, volitiva e forse già conscia del valore del figlio “Mimì”, prese il diploma di levatrice (la ‘mammana’) e sorvegliò, con innata intelligenza, la sua formazione fuori da ogni aula.
Molti dei critici che si sono occupati di Rea hanno, appunto, scritto di un fuoriclasse, anche nel senso etimologico del termine. Come Giovanni Raboni, 1994, “pensando a quanto ci siamo innamorati delle pagine e dei personaggi di Garcia Marquez e di Onetti, viene da chiedersi come abbiamo fatto a non accorgerci (e pensa a “Una vampata di rossore”, 1958, ndr) che ce l’avevamo in casa, a Posillipo, il nostro grande latinoamericano”. Con abiti sartoriali, calzini in sintonia con pochette, lo stile inconfondibile.
Oggi, un plauso indispensabile per il sito perfetto, un ‘work in progress’, “nel senso di non museificarlo, per avviare la ripresa critica e nuova sulla sua opera” secondo una delle curatrici, Lucia Rea, con Maria Luisa Firpo e Ivan Turturiello (www.domenicorea.it). Rimane, poi, insuperabile “l’incontro” di Anna Maria Ortese con Rea in “Il mare non bagna Napoli”, Einaudi, 1953, “due occhi neri, solo pupille dietro le lenti, acutissimi. Mi colpì la loro bizzarra espressione, tra l’estrema serietà delle bestie e l’umana inquietudine, la prudenza”.
O, leggendo la testimonianza di Guarini e l’introduzione di Durante al Meridiano, 2005, – anche curatore, come abbiamo già detto – ove, oltre a tutte le opere di narrativa, si possono incontrare pagine poco o per niente conosciute, poesie, racconti di viaggio, testi teatrali, saggi, testi giornalistici. Infatti dal 1970 Rea è giornalista (come lo furono Compagnone, Prisco ed altri), lavorando alla Rai di Napoli, al ‘Corriere della Sera’, a ‘Il Mattino’. Oltre al grande merito di aver curato per la ‘Saletta rossa’ di Guida, metà anni ‘60, incontri con i grandi Kerouac, Ginsberg, Ungaretti, Pivani ed altri. Più di una ventina i libri, tra raccolte di racconti e romanzi, molti tradotti in varie lingue, editori principali Mondadori e Leonardo e molti i premi, tra cui lo Strega ‘93, a “Ninfa plebea”, 1992, da cui il film omonimo, 1996, di Lina Wertmüller, intriso del realismo magico-sensuale di Nofi e della protagonista Miluzza.
Forse ultimo sogno – Rea in un’intervista a Corrado Piancastelli – di “una plebe che tende ad uscire dai vicoli e dai bassi, comportando una rottura completa e definitiva con le vecchie suggestioni, fatalismo e rassegnazione (…), diventando qualcosa di ambiguo ed equivoco”.