Un artista “baroclassico”, così lo definisce lo scrittore Angelo Forgione nella prefazione del volume dedicato alle opere di Domenico Sepe (Cervinio edizioni) e curato dalla museologa Daniela Marra, “un testimone di bellezza descrittiva a tutto tondo, sempre più rara ai nostri giorni. Domenico Sepe è volto a cogliere la più pura dimensione estetica della sacralità e della misticità, senza mai perdere il contatto con la realtà e la mondanità, e lo fa partendo dal patrimonio artistico esistente sul suo territorio: Napoli”.
Il catalogo dedicato a Domenico Sepe raccoglie alcuni dei suoi lavori più significativi, che ne rivelano il tratto umano e artistico, quello di un poeta contemporaneo della materia.
“Scolpire l’anima prima del corpo – scrive la curatrice Daniela Marra – è la sfida d’arte con cui si confronta Sepe e da cui ne emerge vittorioso: domina l’ineluttabile, la fine terrena, la caducità, attraverso un divino soffio vitale che libera dalla materia”.
Un rinascimento contemporaneo dell’antico, quello dello scultore, che “sboccia – prosegue Marra – in una sovrapposizione di linguaggi classici e anticlassici insieme che partecipano di un’incessante pulsione verso l’eterno; i soggetti tra il sacro e il profano vivono di una tensione espressiva che rapisce estaticamente lo sguardo e la materia si fa culla dell’invisibile in un gioco sensuale di luci e ombre”.
I materiali utilizzati da Sepe sono terrecotte, bronzi, argille e metalli che danno vita ad opere come il “Divino Segreto e il Divino Tormento”, una endiadi, due figure che si completano e raccontano storie diverse ma unite dall’abbandono verso il divino che l’artista incontra anche nell’opera bronzea “Giacobbe e l’Angelo” in cui il primo, nel vigore degli anni, affronta il secondo in una lotta fisica portentosa che “conduce l’umano a uno sforzo tale, riscontrabile nella tensione espressiva del volto e del corpo, da trasformalo in materia sacra in divenire”.
Il sacro, nell’arte di Sepe, è sempre presente, così come la figura del Cristo ma la peculiarità del suo approccio è l’aspetto della rivelazione che trova la sua massima espressione nel “Cristo rivelato”, adornato da un doppio panneggio che copre e scopre il corpo nudo mostrando la parte umana e divina del figlio di Dio.
E molto umana, al contempo mistica, appare la “Sibilla Cumana”, la sacerdotessa di Apollo, di cui lo scultore offre una visione non solo estatica, sensuale e carnale, ma anche immateriale e sfuggente come il vento che la invade. Un’opera tesa a veicolare il messaggio di libertà senza mai sottomettersi alla violenza di un dio.
L’attenzione alla libertà e al coraggio delle donne, Domenico Sepe la sottolinea anche nell’altorilievo in argilla cruda e legno “L’Agone di Martia”, nata dal felice incontro con lo scrittore partenopeo Maurizio Ponticello che ha raccolto la storia obliata di Martia Basile, una donna di straordinaria bellezza vissuta nella Napoli del Viceregno spagnolo, data in moglie a soli dodici anni al facoltoso commerciante don Muzio Guarnieri che le sua violenza fisica psicologica fino a quando, crescendo, la piccola donna, prende coscienza di sé e della sua bellezza e si apre alla seduzione di uomini importanti per poi innamorarsi di un capitano di giustizia spagnolo. Incolpata di aver ucciso il marito, viene rinchiusa nel carcere di Castel Capuano, accusata di stregoneria e decapitata.
“Il catalogo – dichiara l’artista – è frutto di uno speciale incontro con Daniela Marra, la curatrice, che ha sin da subito ha colto il senso che sta sotto e dietro le mie opere”.
E di opere Domenico Sepe ne continua a realizzare anche in pieno lockdown, come quella dedicata a Diego Armando Maradona prossima all’esposizione pubblica. La speranza di tutti noi è quella di poterle mirare presto in una ritrova e consapevole libertà, dono prezioso come l’arte in questo tempo pandemico.