Ecco perché la “cucina napolitana” è patrimonio culturale dell’Unesco

tavola imbandita
tavola imbandita

Una volta si chiamava “cucina napolitana”. Oggi sarebbe meglio definirla semplicemente “dieta mediterranea”, perché le sue regole sono diventate un passepartout universale, che ci ha garantito un modello gastronomico riconosciuto patrimonio culturale dall’Unesco. Come è stato possibile che altre specialità regionali di popoli emigranti siano rimasti patrimonio di minoranze etniche e invece alcuni piatti-archetipo della cucina partenopea abbiano conquistato il mondo è storia tutta da raccontare. Dentro la nostra pasta, la nostra pizza, i nostri prodotti tipici locali, dalla mozzarella al pomodoro, deve esserci una forza interiore, una qualità della materia prima, un calore un colore e un sapore che fanno la differenza.

La tavola partenopea è il banchetto della tradizione reinterpretata secondo le nuove esigenze, un giusto mix di passato e innovazione con le due tipiche connotazioni “di terra” e “di mare”. Alla prima sono legati i ristoranti dell’entroterra napoletano, dove in questi ultimi anni si è andata definendo una forte identità territoriale legata alle produzioni, come si usa dire oggi, a chilometro zero (orti di famiglia, con minestre di verdure e legumi; carne garantita con ricette che ritornano al paiolo della nonna; paste, pani e dolci fatti in casa). Alla seconda soprattutto i locali “bord de mer” con menu a base di pesce, ma anche moltissimi gioielli sconosciuti della giovane ristorazione che cerca una identità contemporanea senza strafare, ripescando dalla memoria e alleggerendo le ricette dei grandi piatti, grazie anche alla straordinaria qualità delle materie prime che continuano a stupire l’universo gourmet. Sono questi i locali concentrati soprattutto sulle isole del Golfo e in Costiera, triangolo d’oro dell’eccellenza gastronomica, come sottolineano le maggiori guide gastronomiche internazionali. Ciò che fa grande la gastronomia napoletana è proprio la sua capacità di oscillare tra le due culture: quella raffinata delle tavole “stellate” (la massima concentrazione dei voti Michelin è proprio nella zona tra Vico Equense e Massa Lubrense), e quella più casalinga della memoria, che sa mantenere in piedi il miracolo del ragù, del sartù, della lasagna carnascialesca e della minestra maritata, delle sfogliatelle e del babà. E’ l’interpretazione giusta di un “glocal” intelligente, che sa conservare la parte migliore del nostro passato e aprirsi criticamente alla modernità.

Questo è reso possibile – se sappiamo leggere tra le righe della storia materiale del nostro territorio – da una nostra peculiare memoria gustativa, formatasi nei secoli, che si trova esattamente all’incrocio tra i due estremi sociali: la cucina povera e la cucina aristocratica. In nessun’altra regione italiana c’è stata una tale commistione tra plebe e ceti alti, mai altrove le mense della fame e gli alberi della Cuccagna allestiti dai Borbone hanno trovato tante affinità con la cucina di corte e con la tavola dei “monzù”, gli chef che governavano i fornelli delle famiglie nobili. Da questo singolare “melting pot” sono nati piatti che hanno attraversato i secoli. Molte creazioni dei talentuosi chef contemporanei arrivano da lontano. Dai sontuosi timballi e dai grandi pasticci avvolti in crosta dolce e salata nascono la lasagna di Carnevale e il regale sartù di riso (francesismo derivante da “surtous”, coniato da uno dei numi tutelari della cucina napoletana tra Sette e Ottocento, Vincenzo Corrado), mentre la “minestra di foglie alla napoletana”, citata nel fondamentale testo rinascimentale di Antonio Latini “Lo Scalco alla moderna”, altro non è che la minestra maritata, brodo di verdure accompagnato da vari tagli di carne.

Il “ritorno al passato” e la grande conquista della “semplicità”, dopo una fase di lungo appannamento postunitario e un certo lassismo gastronomico durato fino agli anni Sessanta, salvato solo da alcuni storici ristoranti marinari, si deve al recupero del nostro patrimonio di ricette classiche realizzato splendidamente sulla carta da Jeanne Caròla Francesconi con il suo libro sulla cucina napoletana. Poi più tardi, sulla tavola, con la nascita di un polo straordinario di ricerca legato al nome di Alfonso Iaccarino, che con il suo “Don Alfonso 1890” di Sant’Agata sui Due Golfi, in anni in cui imperavano futili contaminazioni come le pennette alla vodka e le farfalle al salmone, provò a ripartire dal grado zero della tavola napoletana, ovvero da un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico. Tutta la nuova generazione di chef che oggi gira il mondo portando il messaggio della nostra cucina mediterranea deve qualcosa a questo maestro, che ha creato una scuola di talenti e insegnato una filosofia di vita. Se la cucina napoletana oggi è uno dei simboli del “made in Italy”, buona parte del merito spetta a Iaccarino e alla sua cucina del cuore.

Allo stesso modo, gli anni del boom gastronomico e la riscoperta della qualità in tavola hanno premiato una grande protagonista della nostra cucina: la pizza. Giustamente se ne pretende la tutela presso la Ue, con un disciplinare fin troppo rigido che ne misuri i centimetri e ne garantisca l’originalità. Ma in nessuna altra parte del mondo questo cibo universale, antesignano di tutti i fast food e le cucine di strada, potrà mai toccare i vertici sublimi di una tradizione che ancora vuole l’impasto con acqua del Serino e un pizzico di strutto del Sannio, il condimento con pomodoro San Marzano e mozzarella di bufala, olio extravergine d’oliva della Costiera e la cottura, naturalmente, in un caldissimo forno a legna.

Anche le nuove tendenze del buon bere hanno dato una mano ai nostri prodotti, serviti ormai in molti locali giovani, enoteche e vinerie con degustazione serale. Con la formula: pochi piatti semplici, materie prime eccellenti. E sono vari i tentativi di far rivivere, anche attraverso piccoli pastifici artigianali, la grande tradizione della pasta di Gragnano, con la riscoperta di molte trafile andate in disuso ormai da decenni.

Almeno un accenno ai magnifici dolci dell’antica tradizione pasticciera, che la ricerca vuole nata nei conventi di clausura, dalle mani abili e pazienti delle monache. La ricchezza barocca delle sfogliatelle, il profumo dell’antichissima pastiera, pasta frolla ripiena di impasto di grano, che risale ai riti agrari precristiani, il gusto inimitabile del babà, dolce napoletanissimo benché inventato dall’ex re di Polonia Stanislao Leczinski. E ancora cassata e struffoli, zeppole e “ministeriale” al cioccolato inventato da Scaturchio. Una stupefacente varietà che conferma il suo primato. Non a caso il premio per il “pasticciere dell’anno” è andato a un campano di Minori, Salvatore De Riso.

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