¡El corazón español de Nápoles!

All’alba della rielezione di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli è lecita un’onda di aspettative da parte di tutti coloro che lo hanno riconfermato, e non solo. Per cambiare le cose con ancora più efficacia occorrerebbe iniziare dalla propria casa. In questo caso la casa istituzionale: il Palazzo San Giacomo, edificio unico, che conserva oggi le insegne municipali assieme alle più simboliche persistenze del suo ruolo di capitale, nel periodo del Vicereame spagnolo, e in particolare del dorato regno di don Pedro di Toledo, a cui si deve, per dirne una o due, l’apertura della omonima via e l’erezione del Palazzo Reale Vecchio.

La sede comunale ospita — o meglio, ha inglobato — l’originale chiesa, voluta dal Viceré assieme ad un ospedale. L’originale costruzione in breve divenne il sacrario della nazione spagnola e rimane a tutt’oggi amministrata da un’arciconfraternita di gentiluomini iberici, col titolo di Pontificia Reale Basilica di San Giacomo. La sua funzione fu da subito fondamentale, sia per il culto del santo che per l’assistenza ospedaliera, oltre che nel saper unire in una sola congregazione tutti gli spagnoli e in seguito i napoletani che volessero partecipare alle sue attività.

Un solo esempio basterebbe per averne l’eco. Nel 1528 — scrive Gregorio Rosso — al tempo dell’assedio dei francesi a Napoli, gli spagnoli il 25 luglio celebrarono “la festa di Santo Iacobo con apparato straordinario, musica principale più che far solean prima in altri anni; e questo per mostrare allegrezza, e che tenean poco conto delli nemici e dello assedio; dal quale giorno in poi si conosce la fortuna de li spagnoli andare in poppa ed ogni giorno con maggiore felicità cosicché veramente quel santo patrono nostro tenesse protezione di noi”. La devozione a San Giacomo diventò una manifestazione evidente della presenza spagnola nel Regno e della sua integrazione nella cornice di una monarchia che, a sua volta, si trovava inserita nel grande impero di Carlo V. A farla da padrona nel corredo artistico dell’edificio era il monumento funebre di don Pedro, situato nell’abside alle spalle dell’altare maggiore.

Per volontà dello stesso don Pedro fu terminato nel 1570 da Giovanni Merliano da Nola dopo la morte nel 1539 della viceregina Donna Maria Pimentel Osorio, ritratta insieme al marito; nel mezzo il grande elmo da guerra del Viceré. Dall’epoca borbonica in poi, l’inserimento degli ambienti dei ministeri e la modificazione del complesso, trasformato appunto in Palazzo San Giacomo, determinarono la scomparsa dell’architettura originaria di Ferdinando Manlio. Poi il suo attuale silenzio, e, come troppo spesso accade, l’inizio del suo degrado. Fino al punto in cui la chiesa, col suo immenso patrimonio, è perennemente chiusa (ufficialmente per motivi di sicurezza) e praticamente quasi impossibile da visitare.

La chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, voluta dal vicerè don Pedro de Toledo, custodisce il Sepolcro del vicerè de Toledo

Già da anni sono stati diversi gli appelli per il salvataggio di questo fondamentale monumento nel cuore spagnolo di Napoli, non ultima una recente conferenza alla Società napoletana di Storia Patria, con appelli alle istituzioni, alla Santa Sede e al re Felipe VI di Spagna. Il problema principale per il recupero è rappresentato dalle acque meteoriche che s’infiltrano attraverso la muratura del tetto e della parete confinante con gli ambienti del Comune.

A ciò si aggiunge la grande quantità di piante infestanti e detriti che ostruiscono le canaline di scolo, nonché la costruzione, in anni passati, di una serie di strutture (verande, finestre, ecc.) che non permettono una buona impermeabilizzazione della parete. Arciconfraternita, Soprintendenza e Comune stanno attualmente dialogando e collaborando per risolvere i problemi. Si metterà in sicurezza la copertura (e ciò farà riaprire la chiesa), e si procederà al restauro conservativo delle tavole lignee ivi conservate opera del pennello di alcuni maestri del Cinquecento (Marco Pino, Criscuolo, Santafede, Vasari).

Allo stesso tempo verranno cercati fondi (locali, MiBACT o europei) per il restauro definitivo dell’intero complesso. Ma, come per un paziente in ospedale, ogni giorno che passa potrebbe essere troppo tardi, e una città che vuole continuare a cambiare non può distrarsi dalla propria ossatura storica, soprattutto quando ha il lusso di avere uno scheletro di marmi secolari.

Si ringraziano per la collaborazione

Attilio Antonelli, Luciano Garella, Carlos José Hernando Sánchez, Encarnación Sánchez García.

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