Considerazioni sul triste termine più usato del momento.
Il termine femminicidio, usato per la prima volta dalla criminologa Diana Russel nel 1992, si riferisce a tutti quei casi di omicidio in cui una “femmina” viene uccisa da un “maschio” per motivi strettamente correlati alla sua identità di genere. La predetta studiosa identificò nel femminicidio una vera e propria categoria criminologica dove la violenza da parte dell’uomo contro la donna in quanto tale, non è altro che l’esito di pratiche misogine che si manifestano con una esasperata avversione nei confronti del sesso femminile. Oggi, l’evoluzione in ambito criminologico, proietta sempre più la donna come un tipo vittimologico, posto che il femminicidio racchiude l’insieme di pratiche violente esercitate da un soggetto di sesso maschile in danno di una donna “perché donna”! Questo tipo di violenza, generalmente perpetrata all’interno di una relazione intima – c.d. intimate partner violence –, è un fenomeno sociale presente in tutti i paesi del mondo e diffuso in maniera trasversale all’interno di tutti gli ambiti sociali… una volta avrei scritto in tutte le classi sociali.
Vi è una definizione, tra le tante sul femminicidio, che rende più di ogni altra il senso e la portata del fenomeno, ed è quella riportata nel Devoto-Oli: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Ed è proprio la matrice patriarcale, cifra identificativa di molte aree del nostro Paese e nelle isole, che dovrebbe essere presa in esame soprattutto nei processi educativi scolastici sulle relazioni tra i generi, nonché un maggiore impegno maschile nel mettersi in discussione come genere, favorendo forme di mascolinità meno rigide e stereotipate. Questo non significa snaturare i ruoli all’interno del nucleo primordiale sul quale si fonda la nostra società, e cioè la famiglia, bensì il favorire una rivoluzione culturale rispetto alle dinamiche interne della stessa, atteso che sempre più spesso le donne partecipano col loro impiego lavorativo extra familiare allo sviluppo ed alla crescita delle unioni e del nucleo familiare stesso. In Italia, proprio in virtù di un’importante escalation di omicidi di donne, il parlamento ha legiferato nuove norme per il contrasto della violenza di genere, che hanno l’obiettivo dichiarato di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime. La legge numero 119 del 15 ottobre 2013, infatti, mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, di violenza sessuale e dei cosiddetti reati persecutori (stalking).
A tutto ciò è legato un forte inasprimento delle pene, con particolare riferimento ai delitti di maltrattamenti in famiglia perpetrati in presenza di minori degli anni 18, di violenza sessuale consumata ai danni di donne in stato di gravidanza, e quando il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o del partner. È importante che si siano inasprite le pene ma è fondamentale che si siano accesi i riflettori sul fenomeno, atteso che, soprattutto in Italia, era sottostimato e sottovalutato, proprio in ossequio alla sopra citata cultura patriarcale di cui il nostro Paese è intriso. Sarebbe inoltre opportuno istituire, così come già in altri paesi europei, un osservatorio nazionale sul femminicidio che abbia la capacità di monitorare costantemente i flussi del fenomeno, nonché la possibilità di raccogliere tutti i dati, al fine di valutare con regolarità l’adattamento degli strumenti giuridici, sociali e pedagogici, al fine di ridurne sempre più i nefasti effetti. Vorrei fare un’ulteriore considerazione sul termine usato per richiamare l’attenzione sul fenomeno. Il nostro legislatore, coniando di fatto il termine “femminicidio”, si è allontanato dalle nostre radici culturali e dalla tradizione della lingua italiana che, per il linguaggio colto, ha coniato i nuovi termini servendosi del greco e utilizzando la pronunzia bizantina, diversa da quella che oggi si applica nei Licei classici: ne è testimone il termine misoginia che ho adoperato poc’anzi. Il nostro volgare, per designare genericamente la donna, ha usato il latino “domina” e non mulier, mentre quello di femmina − specialmente in contrapposizione a donna − è stato riservato ad un linguaggio forte, dove si voleva sottolineare l’eros derivante dal genere, con qualche retrogusto dispregiativo.
Per non andare troppo lontano, possiamo fermarci al secolo XIX e al popolarissimo libretto dell’opera “La Traviata” di Giuseppe Verdi, nel quale si mettono in bocca ad Alfredo Germont, nel momento in cui inizia l’oltraggio a Violetta le parole “…per suo volere tal femmina…” con quel che segue. Fenomeno simile incontreremo valicando le Alpi: in Germania, fuori dal linguaggio poetico, oggi nessuno si riferirebbe ad una donna onesta definendola Weib, essendo Frau il termine in uso. In conclusione, credo, pur condividendo pienamente il contenuto della nuova norma, senza rendersene conto, il nostro legislatore non ha reso, a mio giudizio, un buon servizio alle donne vittime di violenza indicandole come “femmine”… meglio avrebbe fatto ad utilizzare il termine ginocidio.