L’Espresso napoletano ha intervistato Giulio Golia, il noto volto de “Le Iene”, su di un tema molto delicato.
Caro Giulio, abbiamo tutti visto il servizio che hai realizzato per le Iene in cui intervistavi alcuni ragazzi dei quartieri spagnoli. Che impressioni ne hai ricavato?
Sono rimasto molto colpito dalla maturità e consapevolezza di alcuni ragazzini, alti quasi un metro, che avevano voglia di raccontare il loro quartiere e raccontarsi. Molti di loro sono cresciuti velocemente proprio perché, stando la maggior parte del tempo nei vicoletti dei quartieri dopo essere usciti dalla scuola, guardano, ascoltano e imitano gli atteggiamenti dei grandi, che spesso non sono proprio i modelli giusti da prendere ad esempio. Crescono velocemente anche perché spesso uno dei due genitori non c’è, perché ha avuto problemi con la legge, e quindi anche a soli 11-12 anni si trovano sulle spalle le necessità economiche della famiglia. Non vivono da bambini, e non hanno quella spensieratezza infantile che ogni bambino dovrebbe vivere. Uno in particolare mi ha colpito molto, perché mi ha detto: “Portami via con te, tu sei una brava persona e mammà con te mi fa venire, tu mi puoi fare solo del bene.” Mi ha letteralmente spiazzato.
Come credi che potremmo aiutare questi ragazzi al di fuori della consueta retorica buonista? Come pensi che questi ragazzi potrebbero aiutare se stessi? Nel servizio delle iene alcuni sembravano tristi e vuoti, comunque senza i tratti della leggerezza tipica della loro età.
Sinceramente io non ho avuto questa percezione di vuoto nei loro occhi, anzi: mi sono sembrati pieni di vita e voglia di fare. Penso sinceramente che lo sport possa essere molto importante, perché li terrebbe occupati, sarebbero costretti a conoscere e rispettare delle regole e condividerebbero interessi con ragazzi della stessa età, magari di quartieri diversi, che potrebbero offrire loro un’altra prospettiva sulla vita. In questo modo avrebbero la possibilità di vivere la leggerezza di quell’età e imparare valori giusti. Altro discorso è il ragazzo che, nell’intervista delle Iene, non ha mostrato il suo volto, che però è anche più grande e ha intrapreso una strada molto sbagliata già da qualche anno.
Lui sì, ha perso l’infanzia e la leggerezza decisamente troppo presto. Ma nessuno è irrecuperabile, soprattutto se comunque così giovane. Oltre la retorica buonista, i ragazzi si possono aiutare investendo davvero in questi quartieri disagiati, magari lasciando da parte le grandi opere e aprendo centri di aggregazione, associazioni, che possano offrire opportunità diverse a questi ragazzi, che non vedendo nulla intorno a loro non possono far altro che percorrere una strada che già conoscono. Nessuno nasce criminale, basta mostrare la via, e sono tanti gli esempi che mostrano che si può fare. Come è successo a Emanuele, il ragazzo aiutato da Carmine, o come fa per esempio il Nest, il teatro di San Giovanni a Teduccio. Quello che manca è solo un po’ di buona volontà.
È noto che tu realizzi le tue inchieste cercando di integrarti nel contesto sociale e di farti accettare nelle case dalle famiglie. Infatti ricevi confidenze, interviste, amicizie che non è semplice ottenere. I tuoi servizi nelle vele di Scampia hanno segnato un modo di fare un certo tipo di giornalismo verità. Hai la capacità di non lasciare trapelare le tue opinioni o sensazioni. Non provi mai paura? Ci racconti qualche tua esperienza?
Paura no, mai. Voglia di sapere sì, è la curiosità che mi muove. Forse le persone mi accettano in determinati quartieri, perché sono stato il primo a entrarci senza nessun tipo di scorta o accompagnamento. Ma forse anche perché parlo la loro stessa lingua, anche io sono cresciuto in un quartiere popolare, conosco bene certi meccanismi, e non mi approccio mai giudicando il mio interlocutore. Forse mi leggono negli occhi che ho condiviso quella realtà, e rispettano il fatto che sia riuscito ad uscirne. E tornando a quello che dicevamo prima, sono uscito da un quartiere popolare, anche perché a me un’opportunità è stata data. Ovviamente nel corso degli anni ci sono stati momenti di tensione, ma il punto chiave è il rispetto, se rispetti il tuo interlocutore non hai nessun tipo di problema. Cerco sempre di fare ragionamenti con tutti quelli che incontro, e questo viene apprezzato. Puntare il dito non serve a nulla, per me è importante scavare un po’ più a fondo e capire come si arriva a un certo punto della vita, cosa ti porta a sbagliare e magari offrirti un altro punto di vista.
La prima municipalità di Napoli Chiaja Posillipo san Ferdinando, dove si sono verificati diversi episodi di violenza fra baby-gang, ha avviato, con l’aiuto della questura di Napoli, un progetto di sensibilizzazione nelle scuole, partendo da quelle materne ed elementari: cosa ne pensi?
Forse per le materne è un po’ presto, ma non trovo sbagliato iniziare a parlare ai bambini di certi temi da quando sono piccoli. È molto importante spiegare cosa è giusto e sbagliato, quindi sicuramente è una cosa positiva. Poi bisogna vedere in cosa si concretizza. La sensibilizzazione è rivolta solo alle scuole bene di questi quartieri o anche a quelle delle aree più difficili? Perché, finché il discorso rimane tra Napoli-bene e Napoli-bene, che commenta quanto sbaglia la Napoli-malamente, non si arriva da nessuna parte. Per me è importante che le due Napoli lavorino per annullare le barriere che le dividono.
E poi in cosa consiste la sensibilizzazione? Importante parlare, ma sarebbe importante tenere aperte le scuole il pomeriggio, dare occasioni ai bambini per fare altro, che siano corsi di musica, di pittura, o anche tornei di calcetto. È fondamentale tenerli occupati. E non che basti tenere il portone aperto, servono maestri appassionati del loro lavoro, che girino le strade, prendano questi ragazzi e mostrino che effettivamente l’infanzia si può vivere diversamente.