Giuseppe Pacileo è stato una delle più affascinanti memorie storiche del giornalismo napoletano. Classe ’36, nel corso della sua carriera a il Mattino aveva seguito la città osservandola attraverso la sua anima più identitaria – il Napoli Calcio – ed era stato testimone del progresso della professione giornalistica nella sua evoluzione (?) nel corso degli anni.
“Sono entrato al Mattino nell’ottobre del 1958, come abusivo. Gino Palumbo, caposervizio allo sport, fu subito chiaro: ‘non le posso promettere nulla, qui noi non assumiamo, ma venga venerdì che le assegno un pezzo di prova: dovrà scrivere il tabellino per una partita di calcio, non più di 20 righe’. Era Marcianise contro Frattese. In realtà io mi ero avvicinato al mondo del giornalismo per un evento peculiare che mi occorse. Ero un giovane studente di giurisprudenza e un discreto scribacchino con la passione della letteratura; un giorno incontrai un mio collega di facoltà, già laureato, che lavorava come bigliettaio sul tram, il 240.
Gli chiesi come mai, dopo tanto studio, si trovava a staccare biglietti sul tram e lui mi rispose con un sardonico ‘non si trova lavoro’. Ritenni allora che avrei seguito la mia passione, piuttosto che perseguito una scelta professionale non troppo amata ed evidentemente nemmeno ben remunerata.” Raccontò nel marzo scorso, durante un’intervista per l’Espresso napoletano “Cominciò quindi il percorso all’interno della redazione: il Mattino era all’angiporto della Galleria, una sequela di stanze disordinatissime, con rumori continui di macchina per scrivere e schiamazzi vari. L’aria era goliardica, il fumo invadeva costante l’aria. La giornata del giornalista cominciava tardi e finiva tardi. In redazione mai prima delle 10 e non si usciva mai prima delle 11, quando il giornale andava in stampa. Si rimaneva non tanto per costrizione ma perché ci si attardava in revisioni, chiacchiere e fughe dai linotipisti. Era un giornalismo molto differente. Il pezzo si impaginava fisicamente ed era rivisto almeno tre volte prima della pubblicazione. Dal redattore capo, dal correttore di bozze (insegnanti di lettere che per arrotondare rileggevano i pezzi) e anche dal linotipista.
Ossia l’operaio che fisicamente preparava il piombo per stampare e che, alle volte, aveva da dire la sua anche sul contenuto del pezzo. Si insegnava anche il mestiere e la lingua italiana in qualche caso. Ricordo ad esempio una professoressa d’italiano, correttrice di bozze, che mi corresse ‘scranno’ in ‘scranna’: la parola per indicare la sedia con braccioli alti è infatti sostantivo femminile e non maschile.” Arrivammo al giornalismo sportivo e al Napoli calcio, di cui Pacileo si era occupato per la maggior parte della sua carriera “ho avuto la fortuna di raccontare il Napoli nei suoi anni migliori e di conoscere i più interessanti personaggi di quei periodi. Ero amico di Palumbo, ma anche di Gianni Brera, che non amava particolarmente i meridionali. Quando gli chiedevo, allora, perché mi stimasse, rispondeva che essendo chiaro di carnagione e di occhi dovevo avere delle ascendenze normanne, giustificando quindi, tra il serio e il faceto, la nostra amicizia.
Era un mondo inimmaginabile oggi. Quando si andava in trasferta ad esempio, quando si seguivano eventi sportivi in altre città oppure, addirittura, in caso di coppe o olimpiadi all’estero, appena terminato l’evento si scatenava una vera e propria fuga verso i telefoni. Il pezzo si dettava, infatti, telefonicamente dal centralino all’interno degli stadi. E chi prima arrivava, prima dettava. Le postazioni erano limitate e si doveva fare in fretta per non bucare l’evento dettando dopo la chiusura. Questo però favoriva una maggiore conoscenza reciproca, con scambio di favori tra colleghi e lunghe chiacchierate in attesa di prendere il posto. Ricordo ad esempio che una volta cedetti il posto ad un oramai anziano Pozzo – ex ct della nazionale campione del mondo che scriveva per la Stampa, ndr. Apprezzò molto e ricordò il gesto anche in un suo articolo citando la ‘cordialità partenopea’”. Pacileo fu anche uno dei primi testimoni di Maradona a Napoli e negli annali è rimasto il suo 3,5 in pagella.
“Maradona aveva tutta la sua intelligenza nel piede sinistro. Lo conobbi appena arrivato al Napoli, venne in visita alla redazione. Quasi mosso da un sesto senso, lo avvertii sui rischi dell’ambiente; mi ascoltò con attenzione, mi ringraziò pure. Fece poi in tutt’altro modo. La questione del 3,5 in pagella fu semplice matematica: mezzo per il rigore trasformato, 2 per essere sceso in campo, e 1 per l’assist. Era Udinese – Napoli e Maradona, che da giorni non partecipava agli allenamenti, entrò in campo in condizione vergognosa, dimostrando poco rispetto nei confronti dei tifosi. Quel Napoli non era però solo il Napoli di Maradona, ma anche di sublimi compagni di squadra. Ricordo Bagni, ad esempio uno dei migliori mediani che abbia visto, un fantastico portatore d’acqua, per così dire, che però firmò con il suo lavoro silenzioso molte vittorie del Napoli. Ma spesso si tende a concentrare nello sport tutta l’attenzione sul singolo.
Nell’82 vidi la galoppata dell’Italia ai mondiali: sì, certo, grande Paolo Rossi, ma senza Bruno Conti che squadra sarebbe stata?”. Si formò in quegli anni una generazione d’oro al Mattino che ha fatto la storia del giornalismo sportivo napoletano ma non solo: “Eravamo amici e come tutti gli amici c’era competizione e sfottò, Riccardo Cassero, Romolo Acampora, solo per citarne due. Ci si confrontava e le discussioni arricchivano. Sì, perché il mestiere era condiviso; se penso ad oggi, tutti davanti il pc, magari da casa… beh, spiego anche un po’ l’appiattimento di alcuni colleghi che si fotocopiano i pezzi. Non è facile scrivere senza vivere e se prima un giornalista lo riconoscevi per lo stile sin dall’apertura, adesso devi leggere la firma e magari associarla poi a un volto visto in tv”.