C’è una Grecia, una Turchia, una Petra di casa nostra. A volte si percorrono chilometri per visitare tombe inesplorate, chiese rupestri, meraviglie di epoca ellenistica sotterranee, quando ce le abbiamo dalle nostre parti, a poche fermate di metropolitana o a qualche minuto di automobile o scooter. È il caso degli ipogei di epoca greca del rione Sanità a Napoli, quel che sesta di una necropoli scavata in un antichissimo banco tufaceo, in parte visitabile. Un tempo – tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. – la zona dell’attuale municipalità Stella-San Carlo sorgeva fuori le mura di Neapolis ed era utilizzata come “valle dei morti”, luogo di sepoltura per la classe dominante sotto le verdi alture degli attuali Colli Aminei e Capodimonte.
Decine sono gli ipogei ellenistici riscoperti in tempi storicamente più recenti; da via Settembrini fino ai confini del borgo dei Vergini, dagli anni ’70 in poi, speleologi come il veterano Clemente Esposito hanno riportato alla luce queste meraviglie inestimabili, di cui si era già a conoscenza nel 1600. Di esse parla infatti Carlo Celano nel suo celebre “Le notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli”, nel corso della settima giornata delle sue “passeggiate”. L’ipogeo più affascinante, purtroppo chiuso da anni al pubblico, è in via Cristallini. Si trova nei sotterranei del cortile di quello che un tempo fu il palazzo del barone Giovanni Di Donato. Egli, nel 1888, a sue spese, iniziò alcune indagini e riuscì a riportare gli ambienti alla luce sottraendoli alla terra alluvionale – la cosiddetta “lava dei Vergini” – che nei secoli si era accumulata. Le tombe di via Cristallini – tre ambienti scavati nel tufo giallo – sono costituite da un vestibolo e un ipogeo ad esso sottoposto. La camera inferiore era quella dedicata al defunto: sbalorditivi sono alcuni disegni greci presenti tuttora sulle pareti – ovviamente un po’ sbiaditi, raffiguranti perlopiù festoni – e i colori ancora vivi, rosso e blu, sui sarcofagi decorati e recanti all’estremità superiore cuscini di pietra. Ma quel che desta più attrazione, nel silenzio e nell’odore umido del sottosuolo, è una testa di Medusa scolpita nel tufo, con gli occhi vitrei, portatrice delle anime nell’aldilà.
Qui, all’interno della camera mortuaria, speleologi e Soprintendenza scoprirono negli anni ’80 – oltre a steli funebri e incisioni sulle pareti come la parola “chaire”, “addio” – mele, melograni, pere a grandezza naturale in terracotta: i frutti donati ai defunti.
È un vero peccato che un tesoro del genere non sia fruibile a napoletani e turisti: oltre al problema della proprietà privata del sito, quel che impedisce un’eventuale apertura al pubblico sarebbe la questione del microclima interno: esperti sostengono che frequenti visite potrebbero alterare le condizioni climatiche del luogo provocando, ad esempio, la caduta degli stucchi parietali. Ad ogni modo, un assaggio concreto della necropoli ellenistica della Sanità lo si può avere qualche passo più avanti, in via Santa Maria Antesaecula – strada che diede i natali a Totò – al numero 126/129. Lì è il regno di Carlo Leggieri e della sua associazione Celenapoli (dedicata, ovviamente, al grande Celano) e si può visitare il cosiddetto “ipogeo dei togati”, più piccolo di quello dei Cristallini, ma altamente suggestivo. Il nome di questa tomba deriva da un visibile altorilievo raffigurante due figure panneggiate, probabilmente marito e moglie, benestanti greci. Vi si accede da un cantinato e da una scala in pietra; pochi passi e già si nota un vestibolo a pianta rettangolare che mostra una cornice a rilievo. Si resta dunque attratti, anche per diversi minuti, scrutando, su una trabeazione, la figura tufacea femminile con “chitone” e “himation”, quella maschile che indossa una toga e una calza e, seppur rovinata, una figura felina accovacciata. La parete est, in parte distrutta, conserva invece un lacerto di decorazione in stucco con tracce di colore.
Appannaggio di Celanapoli (per informazioni c’è il sito www.celanapoli.it) è anche l’adiacente “ipogeo dei melograni”, in fase di recupero. Dopo essere scesi per diversi metri nel sottosuolo da una stretta scala in pietra – l’accesso è sempre nel cortile di un palazzo – si arriva, avvolti dall’oscurità, prima in un locale destinato a chianca (vi si conservavano alimenti), poi nella camera funeraria caratterizzata dall’affresco, su decorazione a stucco della cornice perimetrale, che rappresenta una teoria di frutta – loto, pigna, melagrana, – intercalata da un uovo. Sulla parete nord è invece disegnato un elegante tripode in bronzo che sorregge una lucerna bilicne.
“Questi monumenti hanno un grandissimo valore identitario – spiega Carlo Leggieri, assistente tecnico scientifico presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno e Avellino e profondo conoscitore del sottosuolo napoletano.
“Essi alimentano un forte senso di appartenenza: vi si riscontra la traccia greca che scorre nelle nostre vene”. Un richiamo di cui tener conto, soprattutto in tempi spiazzanti come quelli d’oggi.