Quello che può essere definito il più grande conoscitore di Napoli nel Seicento, Carlo Celano, li vide e probabilmente fu il primo a descriverli. Siamo tra i Vergini e la Sanità, ma non stiamo parlando né del Cimitero delle Fontanelle né dei complessi catacombali, ma di qualcosa di più antico, che ha in comune col resto la matrice porosa del ventre di Napoli: il tufo. Precisamente, di quelle cavità della necropoli di Neapolis, da cui sono riemerse le camere funerarie conosciute come Ipogeo dei togati e Ipogeo dei melograni. Oggi sono parzialmente nascosti dal sovrastante palazzo di epoca vicereale, di ben sei piani, ma soprattutto dal materiale di risulta sversato dall’Ottocento, quando le cisterne dei pozzi si trasformarono in immondezzai. La situazione è però ancor più ingarbugliata e misteriosa. Le costruzioni e le mille stratificazioni sovrapposte hanno reso conoscibile poco del tesoro sotterraneo ancora da scoprire.
E non stiamo parlando di nudi cunicoli, ma probabilmente di sontuose camere funerarie con sarcofagi e di tutto un potenziale patrimonio archeologico. In origine, il corredo decorativo di questi ambienti dovette essere assai più ricco, al punto da suggerire immediatamente al Celano, che vide questi o simili ambienti prossimi, l’idea di camera funeraria, che ben presto richiamò l’attenzione di numerosi curiosi. Talmente tanti, però, e talmente repentinamente che, ben presto, la maggior parte della decorazione di quei luoghi andò distrutta, proprio quando il Celano si apprestava a studiarli e farli disegnare tutti, per preservarli alla memoria. I due ipogei sono una capsula della memoria primitiva di Napoli, escavati per la sepoltura dell’élite della Partenope di cultura e lingua greca, all’alba della dominazione romana, in quella che è definita epoca ellenistica. Dobbiamo immaginare al tempo ben cinque metri e oltre di suolo in meno e tutta una superficie a giorno, con le camere che costeggiavano coi loro ingressi monumentali (intatti) una strada extra urbana.
Erano disposti lungo la collina di Capodimonte, e ne sfruttavano la sagoma per il livello più basso delle camere. A differenza però, delle vicine e più tarde catacombe e del cimitero, queste cave hanno avuto differente fortuna. Ritornate a farsi esplorare soltanto all’indomani del terremoto del 1980, sono a tutt’oggi una rarità visibile su appuntamento, dal loro accesso in Via Santa Maria Antesæcula 129. La loro conoscenza è ancora offuscata anche dall’accesso “mimetico” — tipicamente napoletano — dal portone di uno stabile, sede dell’Associazione culturale Celanapoli (il cui nome si rifà proprio al Celano). L’associazione è capitanata dall’architetto Carlo Leggieri, che da oltre venticinque anni si occupa di questo sito, sia promuovendone la conoscenza, sia anche attrezzandolo per le visite e assicurandosi della sua sussistenza, a partire dal più grave dei suoi problemi: l’enorme mole di “butti” che intaccano larga parte di questa superficie, ostacolando la comprensione di questi spazi come la sopravvivenza dei suoi reperti.
I due ipogei infatti (corrispondenti ai civici 126 e 129 della strada) prendono il nome dalle evidenze che maggiormente li caratterizzano. Quello dei togati è così detto per la presenza di una stele funebre, che rappresenta una fides, ovvero una scena di commiato tra i due sposi che si separano nella morte. Accanto alle due figure, coperte dalle ginocchia in su dall’arco d’imposta del palazzo barocco, s’intravede la sagoma di una pantera, asportata, legata al culto dionisiaco, tipico delle rappresentazioni funebri. Sebbene la visibilità sia parziale, è ipotizzabile che sia il marito il defunto, accennandosi il moto nei piedi, come a significare l’accesso all’oltretomba, mentre la figura femminile è rigidamente stante. Ai loro piedi, una sporgenza che ricorda al rovescio l’architrave di un tempio. E, guardando il tutto da un’angolazione particolare, ci si rende conto che la stele ha una curvatura ottica data per accentuarne la profondità.
Segno di una cultura raffinatissima di rimando macedone, che guardava ai modelli reali del tempo, ovvero alla tomba di Filippo il Macedone, padre di Alessandro Magno. Niente di incredibile, se si ricorda che in Largo Corpo di Napoli sussiste dalla stessa epoca la statua del dio Nilo, ma, a differenza di questa, la stele è nascosta ed è rimasta intatta nel tempo. L’ipogeo dei melograni invece è così detto per la fascia decorativa che ne percorre le pareti con appunto dei melograni dipinti, anch’essi simboli della vita nell’aldilà e correlati al mito di Persefone, prigioniera nell’Ade. Ad oggi gli ipogei sono camere solo parzialmente praticabili (in una c’è perfino una formazione di stalattiti!), ma con un sistematico lavoro di scavo e di recupero potrebbero venir fuori assai probabilmente reperti ancor più straordinari, da suscitare studi ed un flusso turistico appropriato anche in questa zona d’ombra della Sanità. È inutile girarci attorno e star lì a tormentarsi con chissà quali conigli da tirar fuori dal cilindro: la vocazione e la missione di Napoli sono nel primato culturale, a scapito spesso delle troppe incapacità di saperlo esprimere. E in questo “non c’è trucco e non c’è inganno”. Solo arricchimento e rivitalizzazione del territorio. Da duemila e più anni.