Gabriele D’Annunzio, il sommo poeta, il Vate degli italiani, il Comandante. Un uomo dai mille volti, che ha influenzato un secolo intero con il suo super-omismo, con il suo credo estetico e con le sue imprese. Eppure, ancora troppo spesso oggetto di una retorica equivoca e anacronistica che l’ha ostracizzato, fin dal giudizio sprezzante di Benedetto Croce. Ma D’Annunzio era ovunque, anticipando la modernità in moltissimi aspetti e forgiando l’italianità in ogni sua forma, a partire ovviamente dal linguaggio. Dal sandwich, ribatezzato dal poeta “tramezzino”, al nome dei grandi magazzini “La Rinascente”. Dal suo “Me ne frego”, all’intera mole di motti rubati dall’ideologia fascista. Provocatore estremo e incarnazione precoce del cocainomane, celato nella raffinatezza dei suoi abiti e nel galateo del sesso, D’Annunzio fiutò ogni possibilità per il culto della sua immagine, negli anni in cui le idee di pubblicità e di design emettevano i primi vagiti.
Brevettò addirittura un profumo, “Aqua di Nuntia”, ed un modello di pneumatico senza camera d’aria. Non è perciò difficile immaginare che quell’animale di lusso – come amava definirsi – inseguisse il desiderio di dare perfino alla morte il suo volto.
Un singolare aspetto della sua influenza si trova nei monumenti funebri, specificamente quelli militari.
Alcuni sono al cimitero Comunale di Caserta, sconosciuti. Tra le file di cappelle e di cipressi, si apre una serie di sepolture terragne allineate. Tutte sono di giovani o giovanissimi soldati del posto, caduti tra i due conflitti mondiali. Fra queste, quella del sommergibilista Luigi Lauriello. La sua sepoltura, tutta in tufo grigio, ha la forma di un faro e culmina con una lampada. È decorata con delle conchiglie. Un faro, fu voluto come monumento a Trieste nel 1923, per commemorare i morti della Guerra Mondiale, e proprio D’Annunzio vi appo se il motto “Splendi e ricorda i caduti
sul mare”.
Poco più avanti, il sepolcro di Michele De Carlo. Spartano ed essenziale, è squadrato in quelle forme razionaliste che rielaborano i modelli antichi, e che saranno quasi le stesse della tomba di D’Annunzio.
I pochissimi caratteri di metallo ossidato sussistenti permettono a stento la lettura della data di decesso, 1925, ma in cima al sarcofago fa mostra di sé l’aquila nella corona d’alloro, formalmente prossima a quella disegnata per il motto “Hic manebimus optime”.
Il rimando alle imprese fiumane, all’arditismo e al legionarismo del D’Annunzio del 1919 è chiaro già in questi segni.
Diviene ancora più evidente nella tomba di un aviatore, dall’epitaffio ormai illegibile.
Ne sopravvive solo una stele con un rilievo, in cui il soldato è tratto in volo dall’angelo della morte che, col braccio sinitro, lo incorona d’alloro. Il tema è schiettamente legato ad alcuni motivi della poetica dannunziana: l’eroismo patriottico come atto estetico e l’eternità nella memoria, così come le movenze dei due figuranti, tanto prossime a quelle degli attori dell’epoca, che D’Annunzio contribuì a diffondere nell’immaginario collettivo con il suo teatro.
Ma un terzo e ancor più lampante esempio è nella tomba del giovanissimo Maresciallo Michele Guarino, istruttore d’aviazione morto in un incidente d’aereo. Più che nella tomba è nel suo cancello lo sbalordimento.
Al centro, un’aquila stilizzata attorniata da quattro sagome di aereoplani
a forma di “T”, ovvero lo stesso tipo di velivolo usato da Gabriele D’Annunzio per il suo volo su
Vienna del 1918, quando sganciò volantini di propaganda nel cielo austriaco — a proposito, anche
“velivolo” è parola coniata da D’Annunzio.
Al centro della cancellata l’iscrizione “Audere Semper”, motto dannunziano per eccellenza, creato per la Beffa di Buccari. Il tutto, nella compagine formale che ha accompagnato il linuaggio artistico di quegli anni, con influenze che vanno dal futurismo al decorativismo dell’illustrazione libraria.
Chissà quante altre sepolture nei cimiteri campani attendono di farsi riscoprire nell’influenza di quel Vate, che per sé immaginò un vero tempio della memoria.