Intervista a Giuseppe Carrieri, regista di Hanaa

“Leonard Cohen dice in una sua canzone che la luce si vede attraverso le crepe… In questo film le protagoniste hanno tante crepe”. Così, il 20 aprile scorso, inizia la nostra intervista con Giuseppe Carrieri alla proiezione del suo film Hanaa in una matinée per gli studenti del Liceo Umberto I. Si confonde fra di loro, perché è giovane e minuto, ma quando risponde alle domande dei ragazzi, colpiti dalle storie di queste ragazze giovanissime, tutte quindicenni, legate insieme, pur in paesi geograficamente distanti, dal loro nome (Hanaa) e anche da un destino infelice, appare invece già maturo. “Lavorare sui sentimenti, sull’amore – prosegue – sì, questo è un film sull’amore”.

giuseppe carrieri hanaa

Napoletano, poco più che trentenne, amante del cinema ma con studi milanesi dapprima sulla comunicazione, ha scelto di trattare un tema complesso, quello della violenza sulle donne, con un taglio del tutto originale. Il film inizia con una citazione dal Talmud: “Dio conta le lacrime delle donne”. La storia si dipana mescolando le storie di una ragazza indiana, di una nigeriana, di una peruviana e di una siriana, che affrontano situazioni terribili per la loro età, riuscendo a trovare nelle loro vite un barlume di speranza, di amore, di amicizia, che le rassicura sul loro futuro.

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Guardando il film, si comprende bene che il regista ha girato, sebbene aiutato da esperti, in aree estreme, disagiate, al limite della propria incolumità fisica, senza temere di andare oltre (“Ma volevo spingermi nell’ignoto: faccio sempre quello che mi spaventa: divento più forte”) pur di trovare una verità: “Sento la dimensione della bellezza, ma non del pericolo”. Le sue attrici infatti non sono professioniste, ma persone che vivono in quelle aree, nei campi dei rifugiati, e ne portano addosso il disagio e il dolore.

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Carrieri è riuscito a convincerle a recitare, creando con loro una speciale empatia, quasi come se il suo ruolo fosse quello di “uno stratega delle relazioni umane”, persuadendole poi a parlare di loro e delle violenze subite, ma senza prepararle, bensì creando in loro fiducia. Per lui il compito del regista è proprio questo, guardare negli occhi le persone anche nel proprio lavoro. Ci dice che nel film ci sono diversi momenti di assoluta verità, in cui è capitato che l’attrice si sfoghi e voglia dire tutto. Perciò non ha voluto doppiarle: “le voci hanno il loro dolore”.

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Dopo tanto dolore (la violenza di Boko Haram; matrimoni combinati a tavolino per bambine siriane; una gravidanza non voluta, la prostituzione, la malattia) sembra però che il messaggio sia positivo: la bambina indiana non vuole subire il suo destino, scritto nelle stelle, presaghe di eventi funesti, e per questo dice ad un giovane amico che è pronta, pronta a giocare, ad affrontare la vita, il futuro, la sua età.

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