Alessio Mariani, professore di storia e filosofia, in attività dal ’91 nella scena rap italiana con il nome di Murubutu, si è esibito recentemente al Lanificio 25 di Napoli, portando testimonianze dei suoi numerosi album in tema di rap storytelling o, per tutti, letteraturap. Cominciamo con l’origine del suo nome: perché Murubutu?
Dammi pure del tu! Murubutu deriva da Marabutto, che nell’Africa sub-sahariana designa una figura in grado di guarire mali fisici e sociali, con riferimento al potere terapico delle parole.
Qual è la relazione che possono avere i classici della letteratura con il rap?
Apparentemente poco, ma io ho cercato di stabilire una forma di relazione attraverso l’utilizzo di uno stile narrativo che tenesse in considerazione i classici. Bisogna innanzitutto capire cosa s’intende per classici.
Mi riferisco in particolare al ruolo didattico e anche se possibile maieutico di quella che è la tua opera omnia, che è quello che di solito si richiede dai classici.
Didattico sicuramente, maieutico lo spero, certo c’è la volontà di dare degli stimoli, se poi questi semi si sviluppano tanto meglio.
E tu hai visto qualche seme crescere?
Nell’ultimo periodo sì, decisamente. Sia dal punto di vista culturale, con persone che mi dicono di aver approfondito temi che non conoscevano, sia migranti di seconda generazione che mi dicono che riescono ad ampliare il vocabolario, perché non utilizzo le solite cinque o sei parole che sentono di solito nel rap, e anche dal punto di vista musicale, perché sempre più persone cominciano a fare storytelling sistematico nelle proprie canzoni.
Ecco, qual è il tuo rapporto con la scena rap italiana? Quanto è facile fare un featuring con Murubutu?
Non è semplice nel senso che a me piace fare storytelling, quindi per collaborare con me si deve abbracciare questo particolare stile, per questo motivo collaboro spesso, ma non con tutti. Il mio rapporto con la scena è molto sereno: io faccio un tipo di rap particolare, tante persone mi riconoscono questa peculiarità ma non mi emarginano, ecco.
E il pubblico invece? Chi non ha mai sentito rap storytelling e ascolta per la prima volta un pezzo si appassiona alla musica? Alle parole? Come potrebbe essere la fruizione?
Sicuramente la priorità è assegnata al testo: la cosa che colpisce di più è il testo dal punto di vista emotivo, le persone si immedesimano nei personaggi e questo è ciò che veicola meglio i sentimenti, però chiaramente anche il medium dev’essere soddisfacente, sia dal punto di vista musicale che da quello lirico.
La classica domanda che si fa ai professori: com’è stata l’adolescenza di Alessio Mariani? Cosa ti ha spinto verso la professione di docente e verso quella di rapper, che è in qualche maniera nel tuo caso affine?
Verso la docenza il fatto di aver avuto buoni professori, buoni modelli come studente, e poi a me piace parlare di filosofia, di storia, e avere la possibilità di alzarmi ogni mattina per andare a parlare di qualcosa che mi interessa è una bella prospettiva professionale. Dal punto di vista del rapper, beh io faccio rap dall’inizio degli anni 90, ormai è una costante della mia esistenza… diciamo che il difficile sarà smettere!
Cosa ne pensa il professor Mariani del sistema scuola italiano?
Ultimamente, secondo me, è vessato da un cruccio non indifferente: l’eccessiva burocratizzazione della professione. Il docente oggi non è più solo chiamato a insegnare e a sviluppare modelli didattici efficaci, ma anche una serie di ruoli e di funzioni che sono più amministrative che altro. Per un lavoro che ha una componente sommersa enorme, che venga riconosciuta o no dall’opinione pubblica, queste cose vanno a discapito dell’insegnamento in senso stretto.
Questo rimosso può aver prodotto anche un avvicinamento ulteriore all’altro mondo, quello del rap?
No, io i compiti a casa li continuo a correggere e continuo a insegnare, fare il cantante è un altro discorso.
E al contrario, ti è capitato di qualche allievo che si è appassionato? Che viene ai tuoi concerti?
Sì, ho avuto allievi e ho alunni fan, ma sono fan prima e dopo avermi avuto come insegnante, durante un po’ meno! Certo fa piacere, così come mi è capitato di avere colleghi fan, e questo fa ancora più piacere.
Prima parlavamo dei personaggi: ho notato una forte contrapposizione di eros e logos, ma questo prima che nei personaggi c’è anche nell’artista?
No… forse sì, perché alla fine per me la musica è una forma di terapia: io penso di riversare nei personaggi delle paure e delle contraddizioni che ci sono anche in me, quindi probabilmente sì. Se dovessi descrivermi con una mia canzone sicuramente userei una delle uniche che ho scritto in prima persona, che è “La bellissima Giulietta”, che però è più una storia che una poesia. Se invece dovessi usare una storia che mi rappresenta molto direi “Anna e Marzio”, ma più dal punto di vista stilistico.
Emerge preponderante anche il tema del thanatos, descritto a volte in maniera lieve come in “Dafne sa contare” ma altre volte con dovizia di particolari, penso a “La battaglia di Lepanto”. C’è un intento?
Sì, la morte come avrai notato è una costante dei miei testi: anche qui, io la temo e quindi è una forma di catarsi oggettivarla in questo modo. Sono testi diversi, nella prima posso prendermi delle libertà stilistiche e poetiche mentre la seconda ha una funzione didattica, riporta gli eventi della battaglia affinché gli studenti la studino, una specie di captatio benevolentiae!
Però anche in “Dafne sa contare”, canzone che parla di una giovane suicida schiacciata dal peso della tradizione, troviamo comunque uno spaccato della società. Si impara anche qui qualcosa.
Sì, io mi illudo di avere un po’ la tensione che avevano i naturalisti francesi, quelli italiani, e cioè provo a riprodurre la realtà nei miei testi, lo faccio con tutti gli espedienti del mezzo musicale ma il mio intento è questo: mi piace riportare spaccati di vita, del quotidiano, riprodurre insomma la realtà.
È più difficile fare il rapper o il professore?
Sicuramente il professore! È una professione delicata, ci sono delle responsabilità dirette e indirette, è un mestiere da curare tanto che prevede preparazione, equilibrio, lucidità, una grande mole di lavoro e un compenso, possiamo dirlo, piuttosto esiguo! Il rapper si diverte molto di più, è un artista.
Parlando invece delle skills, delle abilità di Murubutu, aiutano quelle del professor Mariani? Non solo la conoscenza della lirica classica ma anche quella dello stare in scena, della presenza.
Sicuramente sì, c’è un’influenza del prof sull’artista perché io leggo e studio in continuazione e questo influenza i miei testi, ma anche dal punto di vista del parlare di fronte alle persone io sono abituato con la classe non ho problemi a pormi davanti al pubblico. Paradossalmente sono più da un pubblico piccolo che davanti a un pubblico ampio, ma credo sia un problema di tutti gli artisti: siamo un po’ tutti dei Narcisi!
Assistendo al suo ultimo concerto, a Napoli, mi ha colpito la metafora con cui ha paragonato il suo DJ (T-Robb) a un oracolo da interpellare per ottenere la musica e la base su cui poi iniziare a cantare. Si cerca qui di fondare un ritualismo, come fanno tanti altri rapper sul palco, ma di tipo culturale?
Il concerto è sicuramente una forma rituale già intrinsecamente, e quindi sì ha tutti i suoi rituali e i suoi momenti intensi proprio in virtù della partecipazione collettiva intorno a un oggetto, in questo caso un oracolo. È un punto di riferimento della mitologia tradizionale, chiaramente in forma scherzosa, ma al pubblico piace dare un proprio contributo nel favorire i segni degli oracoli, diverte loro e noi.
In “Diogene di sinope e la scuola cinica” tu, scherzando, inizi il pezzo dicendo “questo è antiquariato puro: un pezzo del ’97!”. Qual è il rapporto con il nuovo? Va ricercato a ogni costo o qualcosa può concedersi di diventare, in ultima analisi, vecchio?
Beh quel pezzo è un extrabeat e quelli non passano mai di moda, era ovviamente una battuta ma è giusto aggiornarsi, anch’io sono cambiato stilisticamente, spero in meglio. Sento l’esigenza del nuovo nello stile, che non è l’allinearsi alle nuove tendenze ma evolversi, e quello è assolutamente da ricercare.
Sullo stile, senza scomodare Gramsci ma nella tua opera c’è un forte legame tra romanticismo e rivoluzione: molti personaggi compiono gesti rivoluzionari per motivi alla fine romantici.
Beh ma certo, la rivoluzione è una prospettiva palingenetica per cui prevede per forza un ragionamento di tipo sentimentale, è una forma anche religiosa se vogliamo e la religione non può fare a meno del sentimento. Sicuramente c’è un legame, indubbiamente.
In “Levante” un tuo collega, Ghemon, descrive la sua musa. Tu come descriveresti la tua?
La mia musa? Bella domanda… guarda, sicuramente la mia musa è la natura: le cose che mi ispirano di più, penso si noti nelle descrizioni paesaggistica, vengono dalla natura. E il mio punto di riferimento, anche se poi ovviamente spazio, è la campagna emiliana, che mi porto dentro sin da piccolo.
Parlando di colleghi, com’è stato lavorare con Rancore, altro rapper che si sta affermando sempre più?
Rancore è un’ottima persona, un amico e soprattutto un visionario, con lui mi trovo molto bene.
Lui cura molto i video, tu ci hai mai pensato?
No, non amo questa forma di comunicazione, ne ho qualcuno ma preferisco che la gente si concentri sul testo: scrivo cercando di essere evocativo e mi piace che le persone creino le proprie immagini, mentre il video quasi sempre le tradisce, come quando ti è piaciuto un libro e il film sembra sempre un’altra cosa!
Puoi anticiparci qualcosa del tuo prossimo album? Io avevo delle teorie, ma non vorrei dire sciocchezze.
Uscirà verso la fine dell’estate, ma il tema è rigorosamente top secret. Ti dico solo che cercherò di essere meno prevedibile possibile.
Grazie infinite.
Grazie a te, buona giornata.
(photo courtesy of Lanificio 25)