Giulio Pane, architetto napoletano e professore ordinario di Storia dell’architettura presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, ci offre il suo contributo riguardo i temi dell’architettura mediterranea.
Due parole, molteplici significati. Cosa è per Lei “architettura mediterranea”? Di quali valori si fa portatrice?
Innanzitutto, c’è da dire che questa dizione esprime un concetto prettamente occidentale; sicuramente, le condizioni ambientali dettano dei modi d’essere, in particolare nel vivere all’aperto, generando tipologie differenti nell’apertura delle case verso l’ambiente circostante, con situazioni di permeabilità, grazie all’uso di patii e porticati. Un altro elemento è l’utilizzo delle materie prime locali: dalla Costiera Amalfitana alla Sicilia, abbiamo esempi di architetture in pietra in cui è evidente come la povertà dei mezzi abbia indotto a trovare soluzioni strutturali adatte a costruire abitazioni con i materiali allora disponibili. Una curiosa esperienza della mia infanzia è utile per introdurre un’ultima significativa caratteristica. Una delle tante estati passate nella nostra casa ad Anacapri, i bambini con cui ero solito giocare avevano fatto una costruzione costituita da una sola camera, che loro chiamavano “casa”; quell’unico modulo abitativo era sinonimo dell’intera abitazione. Parecchie architetture mediterranee sono costituite dall’accostamento di più “unità base”: questo modello unitario e ripetitivo fa capo a un’idea simbolica che richiama l’archetipo della tenda o della capanna, che sussistono di per sé come abitazioni. È difficile trovare articolazioni spaziali più sofisticate, in cui la forma dell’invaso superi la dimensione di questa successione di spazi. Dalla casa greca alla casa pompeiana esiste il concetto di espansione della dimora attorno al nucleo centrale, in relazione alla crescita della famiglia: l’aggiunta postica della casa tradizionale veniva chiamata “heredium”, ovvero spazio per gli eredi. L’architettura rispecchia le abitudini del vivere comune e, di conseguenza, cambia aspetto col mutare delle consuetudini sociali.
Come accennato in precedenza, si tende a focalizzare l’attenzione sulle architetture europee, mentre il bacino del Mediterraneo si estende fino ai lidi dell’Africa settentrionale. Qual è il denominatore comune delle differenti culture che compongono questo mosaico?
Diventa molto istintivo parlare di un’architettura costiera: tutte le coste hanno elementi fisici che le assimilano, a prescindere dalle diversità dei popoli che le abitano. In primis, l’assenza di legno e il conseguente utilizzo di terra e pietra per le costruzioni hanno fatto sì che nascessero tipologie abitative locali che hanno avuto fortuna senza costituire un modello generalizzato, pur presentando analogie costruttive con opere geograficamente e culturalmente distanti, accomunate, ad esempio, dall’utilizzo della cupola. Fabrizio Carola, Architetto napoletano cui nei giorni scorsi è stato dedicato un convegno, ha costruito in Africa strutture a cupola richiamando sistemi antichissimi studiati dallo stesso Brunelleschi. Il suo progetto di un ospedale ad Agadir, dotato di uno spazio esterno dedicato alla permanenza dei parenti dei malati, introduce un’ulteriore carattere comune: la dimensione sociale e aggregativa dell’architettura. Quest’ultima diventa corale, ogni individuo replica quanto fatto dal suo vicino; tutto ciò è un approccio dotato di straordinaria umiltà che andrebbe fortemente recuperato ai giorni nostri, in cui prevale una dimensione assolutamente individualistica.
Ultimamente l’architettura eco-sostenibile è diventata una moda, imponendosi sul panorama mondiale come una novità. I suoi principi, però, erano già parte del patrimonio culturale degli antichi che avevano costruito delle bioarchitetture ante litteram. Quali sviluppi avrà l’architettura mediterranea nel Terzo Millennio?
Quanto abbiamo appena affermato rispetto all’attenzione degli antichi ai materiali disponibili è un patrimonio di conoscenze che abbiamo perduto. Di conseguenza, il moderno approccio di tipo industriale, ha reso gli architetti degli applicatori di prodotti. Il battuto di lapillo sulle volte di Capri non era semplicemente frutto di una scelta estetica, ma era anche uno strumento di isolamento termico. Con ciò non intendo che si debba ritornare al materiale antico, bensì all’approccio che in antichità si aveva a tutte le fasi del progetto. Gli sviluppi futuri dipenderanno dal rinnovamento dell’educazione all’architettura, che porti nuovamente in contatto con la tradizione dimenticata, abbandonando appetiti legati al guadagno e al consumo.
Come si inserisce Napoli in questo contesto? Quale ruolo potrà rivestire in futuro in questo scenario?
In Napoli convivono due anime: una più antica, costituita da edifici in muratura e l’altra, figlia del calcestruzzo armato; entrambe sono in crisi, la prima per questioni di vetustà, la seconda per scarsa qualità. Data la difficoltà nell’effettuare opere di manutenzione o restauro, in alcuni casi particolari si può parlare di sostituzione edilizia, al fine di recuperare il concetto di casa come luogo di vita e di relazione familiare. Quando ero studente, partecipai a un’inchiesta sulla Loggetta, quartiere progettato da Giulio De Luca. Nato come un classico borgo mediterraneo, è stato deturpato dalla chiusura degli spazi esterni per annetterli alle abitazioni, nonché dalle speculazioni edilizie degli anni successivi che hanno generato edifici di più di otto piani. Questi due elementi negativi mettono in luce i difetti di concezione del progetto: mancava la lungimiranza nel prevedere la crescita dei nuclei familiari degli abitanti; da questa analisi emerge la necessità di recuperare il concetto affrontato in partenza di modulo base che può essere ripetuto in un sistema duttile.
La soluzione per il futuro risiede nella risposta a un quesito sollevato dallo stesso professore: “come può la casa del futuro conservare il carattere povero ma libero dell’aggregazione degli spazi con i limiti della produzione edilizia corrente?”