Alle volte ci si mettono gli incendi, i terremoti e, se siamo in area flegrea, il bradisismo. Ma nessun fenomeno al mondo minaccia e castiga arte e cittadinanza come l’incuria. Il duomo di Pozzuoli, tra i monumenti più rilevanti del meridione per la sua eccezionale conformazione architettonica e il suo patrimonio storico-artistico ha resistito, in poco più di un cinquantennio, a tutti questi fenomeni, a cui si è aggiunto un ventennio di devastazioni e saccheggi, esteso a tutto il circondario, financo quasi sparendo dalla stessa memoria dei più anziani cittadini puteolani.
Poi, dal 2003, un lume di ripresa con il restauro guidato da Marco Dezzi Bardeschi, che ha saputo sfruttare le disgrazie occorse al duomo per estrarne una bellezza ancor più nascosta e suggestiva. Già Capitolium tufaceo dal 194 a.C. dedicato alla Triade Capitolina di Giove, poi rifatto in marmo in età augustea, il tempio è divenuto tra V e VI secolo chiesa, non spogliandone i materiali per una nuova fondazione, ma essendo esso stesso struttura e ‘abito’ per la nuova fede cristiana. Ristrutturato in chiave barocca da Bartolomeo Picchiatti e Cosimo Fanzago nel Seicento, sotto l’egida del tenace vescovo Martino de Leòn y Càrdenas, fu infine ancora adattato nel primo cinquantennio dell’Ottocento dal vescovo Carlo Maria Rosini.
Praticamente un ventaglio di stili ed epoche che affresca una pagina bimillenaria di arte, ma con uno stretto occhiello di prospettive. Il restauro, infatti, ha permesso di ingabbiare (positivamente) il duomo in una scatola vitrea che restituisce, come in una struttura a matriosca, tutte le facies del monumento, facendo venir fuori il frontone dell’antico tempio, con le sue sei colonne corinzie nel pronao che sembrano ancora voler congiungersi al troncone di navata barocca tagliato (già devastato dall’incendio suddetto). Dall’altra parte, invece, scende in una platea lignea appositamente creata per staccare, visivamente ed architettonicamente, con una incredibile suggestione, la navata dal presbiterio, ridefinendo la zona che dovette essere l’antico naos del tempio, dov’era custodita la cella con la statua della divinità titolare.
La romanità si dà il cambio con il Barocco nello spazio di neanche un metro, con uno stacco mozzafiato, che è al contempo una lezione di conservazione architettonica ed un prodigio squisitamente italiano della naturale vitalità imperitura delle strutture antiche nelle più disparate riconversioni, dall’alba del Medioevo in poi. Nella Cappella del Santissimo Sacramento, poi, è possibile apprezzare lo stesso stacco, essendo stati svuotati gli spazi interstiziali per mettere a nudo confronto le scanalature delle colonne e la calotta della cupola. Eppure a questo prodigio non è ancora dato il lustro che merita.
Partendo dalla visibilità per sole quattro ore settimanali e con limitato accesso, che vieta al visitatore la visita al presbiterio, precludendosi la buona vista del Martirio dei Santi Gennaro e Procolo di Agostino Beltrano, capolavoro napoletano di scuola caravaggesca, e di tutto il corredo ornamentale. In effetti, l’intero Rione Terra giace ancora in un immeritato stato di work in progress. Palazzetti pronti ma vuoti, strade da rifare e mille accorgimenti ancora che, però, auspicano di più alla realizzazione di una nuova area dove società civile, impresa e patrimonio artistico avrebbero tutte le carte per incontrarsi nel più felice dei nidi. Rione Terra, infatti, è anche uno splendido percorso archeologico sotterraneo, con evidenze superstiti ancora impressionanti.
Accanto al duomo, resiste bellissimo ma ancora sconosciuto il Museo Diocesano, che racconta la storia puteolana per pannelli e reperti, vantando, tra le altre cose, una rilevantissima quadreria, numerose sculture, rilievi, lasciti di collezioni private ed una sala proiezioni. Insomma, questa cattedrale nel deserto merita di tornare al suo posto aureo nella società civile, nella fruizione e nella Storia, perché quando giace addormentato un duomo, e con esso il quartiere più antico di una città, giace addormentato un popolo intero, troppe volte sfiancato a cercare tutte le soluzioni che ha già nel proprio stomaco.