La Galleria Umberto I è un capolavoro dell’architettura italiana di fine ’800. Ma per i napoletani significa molto di più
Umberto di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele II (il sovrano del mitico incontro a Teano col generale Garibaldi), era diventato Re d’Italia nel 1878. Nel 1884, durante una spaventosa epidemia di colera a Napoli, Umberto era “sceso” nel capoluogo partenopeo, per dimostrare in concreto la propria vicinanza ai napoletani. Questi ultimi non l’avevano dimenticato. La Galleria Umberto I è “figlia” di questa vicenda.
Come un enorme ex voto laico
Napoli, come è vero per tutti gli aspetti dell’esistenza, anche e soprattutto riguardo ai propri re e alle proprie regine ha mostrato sempre il suo volto più carnale e viscerale: ha amato troppo e odiato troppo, ha ricordato per sempre o ha voluto sotterrare violentemente, come sotto la polvere dei cimiteri. La vicinanza di Umberto I, durante il colera del 1884, non fu riposta nei cassetti della memoria. Come le grazie ottenute dalla Madonna. La Galleria Umberto I, alla fin fine, possiamo guardarla come un enorme ex voto laico da parte della città. D’altronde tantissime edicole votive, a Napoli, ricordano quella stessa data, al di sotto di commosse parole in epigrafe: 1884.
La Galleria Umberto, simbolo della Bèlle Epoque
Siamo, nel 1890 (l’anno di “consegna” della Galleria Umberto I a Napoli ed al suo popolo), nel pieno di un’età che si voleva a tutti i costi leggera e soave. La Bèlle Epoque, come è stata chiamata, era un’epoca di innovazioni tecnologiche, di artisti che dipingevano en plein air, di treni invincibili divoratori di terreno nonché primi dispensatori del brivido di una “accennata” velocità. Nascevano dei veri e propri “miti” da raccontare e da tramandare: era la “religione” del progresso.
La Galleria sembrava proporre, appunto, una nuova e libera mitologia architettonica. All’esterno, sulla facciata lato San Carlo, le statue rappresentanti le personificazioni del Telegrafo, del Vapore, del Commercio e dell’Industria costituivano quasi delle moderne divinità. E’ chiaro che tutto è cambiato, da allora. Eppure dire “vado in galleria”, “ci vediamo in galleria”, connette il nostro presente con il sogno di allora.
L’interno: un mondo luccicante e “separato”
La struttura in ferro e vetro, che costituisce il “soffitto” dei due “stradoni” interni, luccicanti di vetrine, attraverso cui si cammina, assimila l’interno della galleria ad un’enorme serra: un mondo a parte. Fuori c’è Toledo, col suo passeggio brulicante: la strada che Melville aveva paragonato a Broadway. Ma “dentro” c’è la sosta, ci sono i tavolini, ci sono i caffè: c’è il tempo. Il vetro e il ferro fanno assomigliare tutto ad un enorme vagone di treno, che viaggia per ore senza scardinarsi mai dal suolo. Senza muoversi.
E il paesaggio sono gli indumenti chic delle vetrine dei negozi, le cravatte, i cappelli. E poi, se si alzano un po’ gli occhi verso i lampadari, il “teatro” prosegue con carne di stucco: personaggi e scene che hanno relazione coi miti legati alla musica. Dopotutto, uno dei tre ingressi della Galleria conduce direttamente al teatro San Carlo, il tempio della musica italiana ed europea.
La Galleria è una sola…
Per noi napoletani la Galleria Umberto I è semplicemente “la galleria”. Quando vi facciamo cenno dovremmo specificarne il nome, visto che in città, proprio di fronte al Museo Archeologico Nazionale, di “galleria” ne esiste un’altra. Ci riferiamo alla Galleria Principe di Napoli, tra l’altro “consegnata” ai napoletani già sette anni prima della conclusione dei lavori della “Umberto”. E invece no. Se un napoletano dice “vado in Galleria”, sta dicendo, sostanzialmente, che va a via Toledo. A Tuleto.
La Galleria Umberto e i suoi significati
Dicevamo che la Galleria è un “tempio” della religione laica del “futuro”, dell’evoluzione tecnologica. Oggi, è chiaro, questo mondo di ferro, di luci, di “fari accesi” sull’orgoglio del progresso, non può più possedere il “carico di significati” che aveva in quegli anni di grandi “speranze”. Le “icone” scolpite in alto facevano sognare un mondo fatto di nuovi modi di comunicare (il Telegrafo), un universo di viaggi veloci, distanze azzerate (il Vapore poteva connettersi anche a questo), un futuro di produzioni infinite di strumenti sempre più complessi (l’Industria). Oggi tutto questo si è già avverato. Eppure…
Eppure la Galleria contiene emozioni. Sedersi al suo interno, ad un tavolino a sorbire un gelato o a bere un caffè, è un viaggio in un universo “elegante”, chic (diremmo noi napoletani), è un’immersione nella “calma” e nell’utilizzo ozioso e lento del tempo, proprio delle antiche classi aristocratiche. La Galleria è un’ingestione dolce di storia.
La Galleria “fashion” e la Galleria del popolo
Magari ‘e guagliuni che scendono dai Quartieri Spagnoli per raggrupparsi a via Toledo e fare la posteggia alle ragazzine, non sanno nemmeno perché esiste quell’immenso spazio luccicante. Magari per qualcuno di loro è talmente ampio da considerarlo un campo di pallone. Come dar loro torto, in realtà?
Per qualcun altro l’ingresso “Toledo” della Galleria si confonde con il profumo e il gusto inconfondibile dei babà di Mary, una “leggenda” del mangiar-dolce on the road.
E come non ricordare l’albero di Natale che ogni anno campeggia al centro della Galleria? L’albero diventa come un dio, un San Gennaro di fronde. Ad esso i napoletani dicono tutto, come in una confessione. Ed è commovente leggere tanti biglietti, anche sgrammaticati, di ragazzi e ragazze che “pregano” per una storia d’amore, un genitore malato, un’interrogazione scolastica. L’intero paradiso non basta, per le preghiere di Napoli: ben venga un albero, nella galleria immensa e luccicante.