La zizzona di Battipaglia è una mozzarella gigante che può arrivare a pesare anche 15 kg. E’ diventata celebre in tutto il Paese grazie alla sua “comparsa” nel film Benvenuti al Sud
È già il nome della zizzona a dirci tutto. La forma, la morbidezza, la abbondante quantità di latte che sgorga al taglio (con tutte le connessioni inconsce che ciò comporta), il suo colore vicino all’avorio. Tutto ci porta in direzione di uno degli “oggetti mitici” – e, ancor prima, “concreti” – dell’esperienza del nutrimento umano: il seno della donna, la mammella, il primo veicolo di alimentazione di ogni mammifero sulla terra.
Il “sapore” della zizzona nel dipinto di un genio
A Napoli troviamo la zizzona dove non ce lo aspetteremmo: andando per musei. Vediamo come. Tra il 1606 ed il 1607 Michelangelo Merisi, il Caravaggio, dipingeva, ispirato forse dalla vita formicolante dei vicoli di Napoli, le “Sette opere di Misericordia”, conservate nel maestoso palazzo del Pio Monte della Misericordia, sito in via dei Tribunali. Proprio la Congregazione del Pio Monte aveva commissionato l’opera al genio lombardo. Sulla destra del maestoso quadro (390 x 260 cm) una donna procace scopre il seno e lo accosta alla bocca di un vecchio, che lo succhia.
La donna si gira indietro, è guardinga. Per l’imbarazzo? O per indirizzare ai curiosi, da buona napoletana, le dure parole “che guard’ a ffà?”. E’ una prostituta? O semplicemente una donna pietosa nei confronti della fame – di cibo e di sesso – del vecchio dietro le sbarre? Qui non ci interessa più di tanto. Ci preme notare solo che quel seno è come una mozzarella di bufala.
Napoli e la fame…Napoli è fame
Tra il bianco ed il bronzeo, quella mammella caravaggesca si fa protagonista di tutto il quadro, e ne sentiamo quasi il peso ed il gonfiore. In breve, non è un seno, è una zizza: ciò che del corpo della donna-madre si succhia, si mangia. Il quadro di Caravaggio è la fame atavica di Napoli.
Ciò che l’artista bergamasco ha dipinto, noi lo pronunciamo da secoli con le labbra: ‘a zezzenella (“è fernuta ‘a zezzenella”, cioè son finiti i tempi facili, la pacchia…), ‘a mammazezzella (una specie di antica nutrice), ecc… In ogni caso Napoli – la sovrappopolata, la città stipata, anmmuntunata, satura all’inverosimile di esseri umani che si vivono uno ncuollo a n’ato -, questa Napoli ha bisogno di immaginare che i seni zampillanti di femmineo latte non finiscano mai.
Forse il popolo ha il taciuto desiderio di scorgere, una mattina, un Vesuvio fatto seno, colante latte tiepido all’infinito.
Il linguaggio è tutto
Ed ecco che la zizzona di Battipaglia ritorna con la sua “definizione” che placa la fame al solo pronunciarla. Abbiamo già accennato, in un altro articolo, alla presenza “ossessiva” di lettere “forti”, piene, presenti – soprattutto come “doppie” – nel vocabolario gastronomico di Napoli. ‘O panzarotto, ‘o cuzzetiello, la stessa pizza, costituiscono un dizionario dei sensi che fa largo uso delle “p”, delle “z”, fino a rendere i termini stessi come delle specie di sculture appetitose da costruire tra la lingua ed i denti.
La lavorazione della zizzona
Ogni delizia del palato è frutto di tempo, fatica, competenze, pazienza. Ci verrebbe da dire, arte. E d’altronde perché non accostare l’opera di erosione e scultura del marmo propria degli artisti, ad esempio, ai gesti decisi e delicati – ad un tempo – del casaro? Si ha a che fare con una “materia” da addomesticare, da rendere “obbediente” al volere dell’uomo che lavora, da “trasformare” secondo un’idea che è prima nella testa e poi, solo poi, nel prodotto finito.
Il termine “mozzarella”, come vedremo, ci racconta tanto dell’opera che proviene dalle mani di veri artigiani, che devono “dominare” e rendere docile una materia sin dal suo sgorgare dalle mammelle delle bufale.
Un “marmo liquido” da scolpire
Il latte fresco di bufala viene munto – con procedimenti ovviamente meccanici – e poi consegnato al caseificio entro 60 ore dalla mungitura stessa. Viene fatto dunque coagulare , e la sua temperatura raggiunge circa i 34°C. Il composto così ottenuto si chiama “cagliata”. Essa si lascia maturare in siero per circa 5 ore.
È straordinario quanto il linguaggio del cibo e quello delle esperienze umane si prestino continuamente mutuo aiuto. “Maturare”, “riposare”, sono verbi legati sia a vissuti umani sia a momenti-chiave delle preparazioni gastronomiche.
Dopo le 5 ore, la cagliata, che ha “riposato” ed è “maturata”, viene tagliata in strisce filate, le quali saranno poi mozzate a mano per ottenere la forma e la misura finale. È proprio questo gesto, in un certo senso, “violento”, questo “mozzare”, a dare il nome alla “mozzarella”. Sì… un verbo che in genere era usato nel vocabolario “guerresco” ed era riferito ad immagini terribili quali quelle di una spada che “troncava” un arto, o la stessa testa.
Ma in questo caso, questo gesto “artigiano”, preciso, ripetuto, genera la forma color avorio che farà impazzire i nostri palati.
“Geografia” della zizzona
Detto questo, non possiamo che concludere con una “lode” della tradizione gastronomica dell’area geografica che ci ha regalato la zizzona. Le migliori mozzarellone si possono acquistare nel Salernitano, nella zona tra la Piana del Sele e il Cilento. E’ qui che sono concentrate le migliori industrie casearie (oltre, ovviamente, che nel casertano) ed i migliori capi bufalini.