Dire che Napoli sia una città di mare è un dato geografico ovvio. Dire cosa sia Napoli “dal mare”, è invece un concetto antropologico e storico più sfuggente. Si tratta, infatti, di comprendere come il mare sdoppi la città, e la barriera d’acqua si trasformi piuttosto in una opportunità d’alter ego all’identità urbana. Dal mare venivano allestiti gli ingressi trionfali dei capi di stato, come quello del viceré Juan de Zuniga nel 1586. Come discese dalla barca fu accolto dal suono del cannone, sia da Castel dell’Ovo, che da Sant’Elmo e Castelnuovo, quasi a mo’ di difensori di Napoli sotto assedio. La costa, illuminata da torce, fu definita dai cronisti una nuova Troia o una Roma incendiata da Nerone.
Prima ancora, la Napoli marittima era stata “vestita da sposa” per accogliere Carlo V, nel cui golfo si sceneggiò la battaglia navale vinta dall’imperatore a Tunisi. In ambo i casi, la città e la sua costa trascendevano la loro identità fisica per diventare fondale teatrale di una mitografia storica ed estetizzante. Ma questo sdoppiamento “via mare” riguardava anche il privato e il religioso. Il 24 giugno, ad esempio, era celebrata la festività di San Giovanni Battista. Il popolo vi partecipava copiosissimo, a partire dalla vigilia, che vedeva l’allestirsi di una fiera lungo un chilometro di riva, per una parata dal Castelnuovo a San Giovanni a Mare. Ma il momento più intenso era sicuramente la sera successiva quando, in concomitanza col solstizio d’estate, ci si immergeva in mare per un bagno rituale, rigorosamente nudi, che ad un tempo avrebbe rinnovato il battesimo e stimolato la fertilità, dandosi subito dopo a rituali di corteggiamento o alle celebrazioni di fidanzamento, in una festa che dal mare invadeva le strade.
Ma la città “dal mare” continuava in altri modi ad essere “doppio”, rispetto agli assetti civili della terraferma. Ricchi e poveri potevano reinventarsi vita ed affetti dilettandosi sulla riva in estate, secoli prima che nascesse il concetto di turismo. Così doveva apparire Mergellina in epoca moderna, secondo le guide d’allora: “Il mare vedesi popolato di vaghe e nobili filuche, tutte bene addobbate di bizzarrissime tende, molte delle quali portano concertatissimi cori di cantori, che cantando, veramente fan dire esser questo il mar delle sirene. […] La riva poi giubila in vedersi onorata tutta da carozze di dame, […] che s’uniscono in tante camerate, ed ogni una di queste tiene riposto d’argenti, con ogni più desiderabile rinfresco, come d’acque concie, di sorbetti, di cioccolate, e calde e ghiacciate, di frutta, di cose dolci, ed altre stravaganze di paste […] È ridotta a tal segno la cosa, che non v’è camerata di dame che almeno non ispenda cinquanta scudi la volta. […] Di questa robba però la maggior parte va ad utile de’ servidori”. Indiscusso maestro di questa visione fu Gaspar de Haro y Guzman, marchese del Carpio e viceré, che dal 1683 al 1685 allestì feste balneari paganeggianti, ispirate a quelle romane, nei medesimi luoghi di costa cittadina dove persistevano le antichità.
Il marchese impiegava calcoli idraulici per invertire terra e mare, con giochi a cavallo e corride di tori a pelo d’acqua, talmente celebri che venivano incise e pubblicate a stampa. La Napoli “dal mare” era avvertita non come striscia di costa, o non solo come viadotto per il Mediterraneo, ma un luogo altro, di tolleranza e libertà. Come dovette percepirlo più tardi Oscar Wilde, quando scelse di riparare a Posillipo dopo il carcere a Londra. Come più recentemente lo hanno percepito Roberto Pane ed Ermanno Rea, invocando una nuova Norimberga per quella identità “altra” oggi sfigurata dal degrado, e che urge come l’aria ― o meglio: come l’acqua ― riconquistare.