“…Quivi i marini liti, et i graziosi giardini, et ciascun’altra parte sempre di varie feste, di nuovi giuochi, di bellissime danze, d’infiniti stromenti, d’amorose canzoni, così da giovani come da donne fatte sonate e cante, risuonano”.
Così Giovanni Boccaccio descriveva la Napoli nella quale soggiornò dal 1327 al 1339. Ciò a rappresentare forse le esigenze di un popolo che nella propria cultura ha sempre dato un posto importante alla musica. Raramente, come stava invece avvenendo a Napoli in campo musicale, la cultura partiva dalle parti più “basse” della popolazione, da chi non poteva permettersi gli studi e da chi girovagava per le strade vivendo alla giornata per sbarcare il lunario.
Forse per questo, nel Cinquecento, nelle cronache partenopee sono rare le apparizioni di cantori e musici ed i generi musicali sono di prevalente estrazione popolare. Nonostante ciò, in un contesto socio-economico composto da nuclei familiari a basso (o addirittura senza) reddito, suonare per le strade o durante le feste organizzate da aristocratici e ricchi mercanti, costituiva un modo come un altro per guadagnarsi da vivere. E solo dalla particolare vocazione del popolo napoletano nell’arte della musica e del canto, senza trascurare la specializzazione nell’arte dell’arrangiarsi, potevano diffondersi delle composizioni musicali con testo di poesia: le villanelle. Proprio perché di creazione popolare, le prime villanelle erano eseguite in dialetto napoletano e cantate nelle strade, nelle campagne e nei sobborghi rurali. Più tardi, però, tradotte in italiano, trascritte e composte sulle righe del pentagramma, divennero un vero e proprio genere musicale che si diffuse ben presto in tutta l’Europa di allora e dunque anche molto lontano dai confini del regno.
E questo cammino fortunato sia negli altri stati italiani che nelle corti europee ne decretò il successo per circa un secolo e mezzo, fino a fondersi, nel XII secolo, nel genere madrigale. Basta pensare che la più antica raccolta di villanelle (15 Canzoni a tre voci), stampata a Napoli nel 1537 da Giovanni da Colonia, è conservata nella storica Biblioteca tedesca di Wolfenbuttel. Un’altra raccolta della prima metà del ‘500, intitolata Napolitane a tre voci, è conservata nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Ma anche il British Museum ne conserva una del 1570. Così come le descrive il maestro Roberto De Simone nella sua opera “Disordinata storia della canzone napoletana” del 1994, le villanelle napoletane più famose furono composte da autori che non avevano dimestichezza con il rigo musicale e, tranne nei pochi casi in cui l’autore era un musicista di professione, le melodie delle canzoni sono state messe sul pentagramma da esperti cui l’autore canticchiava il motivo o lo consegnava scritto rozzamente nella sola parte melodica.
Nel 1546 il musico napoletano Giovan Tommaso Di Maio pubblica la raccolta intitolata Canzoni villanesche che contiene molti testi in dialetto tra cui “Madonna nun è cchiù lo tiempo antico” da cui prende spunto il titolo del recente lavoro del gruppo partenopeo Dea Ensemble che il 7 dicembre, al Centro Nadur Teatro di Cicciano (NA), alle 20:30, presenteranno “Lu tiempo antico” per promuovere e far conoscere le villanelle popolari. Fabio Fiorillo oltre ad occuparsi di questo lavoro, fino a gennaio sarà impegnato anche con Peppe Barra nello spettacolo “La cantata dei pastori” in cui interpreta il pescatore Ruscellio. Assieme a Fabio hanno preparato “Lu tiempo antico” anche Lello Russo ed Angelo Nocerino. Oltre alle tre voci maschili, ci sarà anche una voce femminile ad accompagnare le melodie popolari nonché alcuni strumenti quali percussioni e chitarre. “Sarà uno spettacolo tendente a modernizzare un modus napoletano antico – dice Angelo Nocerino – dove cerchiamo di evidenziare il linguaggio napoletano seicentesco con una ritmica talvolta moderna ed ovviamente contaminata dai ritmi e dai suoni mediterranei”.
A Lello Russo chiedo degli strumenti che prenderanno parte alle villanelle e della eventuale presenza di liuti e clavicembali. “La strumentazione che sosterrà i ritmi ed i suoni dello spettacolo sarà costituita da chitarre e percussioni. Purtroppo integrare altri tipi di strumenti per realizzare melodie seicentesche avrebbe comportato ulteriori costi per lo spettacolo e, dunque, la mancanza di fondi porta a delle scelte strumentali ovvie…”. Invece a Fabio chiedo se nello spettacolo ci sono brani cosiddetti a cappella e se ci sono momenti di coinvolgimento del pubblico. “Le villanelle erano brani prevalentemente a tre voci per cui non è escluso che in certi momenti non ricorreremo all’accompagnamento musicale così come inseriremo qualche moresca. Cosa sicuramente non prevista è la partecipazione attiva del pubblico.
Per anni abbiamo lavorato prevedendo appunto una partecipazione attiva del pubblico per tenere alti i ritmi dello spettacolo. In questo caso abbiamo preferito concentrare l’attenzione del pubblico sulla bellezza di questi testi che, grazie prevalentemente al lavoro del maestro De Simone, è stato possibile riprendere ed interpretare per portarli all’attenzione di un vasto pubblico e proprio per far scoprire a tante persone questo patrimonio artistico che abbiamo ereditato dai nostri antenati e che si è iniziato a costruire dai piccoli borghi delle nostre terre fino a raggiungere lo splendore delle corti seicentesche.” Non ci resta che prendere parte agli spettacoli che saranno realizzati ed augurare il meglio per questi ragazzi che, andando a spulciare nella storia e nella tradizione partenopea, ci faranno senz’altro vivere, sebbene per un’ora e mezza, l’atmosfera partenopea di sei secoli fa.
Curiosando nella storia partenopea del sedicesimo secolo, con le Villanelle nasce anche il Conservatorio…
In realtà l’origine dei conservatori a Napoli esula dal discorso musicale in quanto queste strutture nascono con uno scopo ben diverso: quello di proteggere e di conservare (da cui il termine “conservatorio”), dai pericoli e dalle difficoltà della vita, i trovatelli e gli orfani. Già nel Cinquecento le strade della città partenopea brulicavano di scugnizzi e molti di essi, orfani o provenienti da famiglie poverissime, venivano abbandonati a sé stessi. La mortalità era molto alta e tanti di questi ragazzi non raggiungevano neanche la maggiore età. Proprio per dare aiuto e riparo a questa moltitudine di minori, nel 1537 fu fondato, nei pressi dell’omonima chiesa, il Santa Maria di Loreto: si tratta del primo conservatorio italiano.
Nel 1589 fu la volta dell’istituto Poveri di Gesù Cristo. Poi nel Seicento ne furono fondati altri due: Sant’Onofrio a Capuana e la Pietà dei Turchini. Questi quattro istituti davano ospitalità a tantissimi scugnizzi napoletani: insegnavano loro a leggere, a scrivere ed anche un mestiere. Ovviamente in un contesto come quello partenopeo in cui la musica nasceva e si evolveva anche per la strada, non poteva essere trascurato l’insegnamento delle arti musicali così che, col passare del tempo, quando la professione di musicista iniziava a dare anche dei guadagni, questi luoghi nati per proteggere la scugnizzeria, si trasformarono in vere e proprie scuole di musica dando luogo agli attuali “conservatori”. Bisogna arrivare però al 1826 allorquando i quattro istituti prima menzionati, confluirono tutti nel conservatorio di San Pietro a Majella che fu statizzato nel 1862 dai Savoia e dove fu annesso un convitto per accogliere gli studenti provenienti da altre località.
Il conservatorio di S. Pietro a Majella, che fu diretto tra gli altri anche da Gaetano Donizzetti, era considerato il più importante d’Europa. Prima i quattro conservatori napoletani e, dopo la fusione, quello di San Pietro a Majella, hanno formato grandi musicisti che influenzarono fortemente la musica del tempo diffondendo lo stile musicale napoletano nelle corti di tutta Europa: Francesco Cilea, Saverio Mercadante, Alessandro Scarlatti e suo figlio Domenico, Vincenzo Bellini, sono solo alcuni dei nomi che hanno dato lustro alla città nonché alla musica partenopea. Ma soprattutto al conservatorio di San Pietro a Majella si diplomarono – o studiarono soltanto – tutti quei musicisti che con la loro opera e le loro composizioni hanno fatto conoscere la canzone napoletana in tutto il mondo. Francesco Paolo Tosti e Luigi Denza: il primo musicò “A Marechiaro” di Salvatore Di Giacomo, il secondo autore di “Funiculì Funiculà”.
E poi Ernesto De Curtis che musicò “Tu ca nun chiagne”, “Voce ‘e notte” e “Torna a Surriento” per continuare con Rodolfo Falvo che scrisse “Dicitanteclle vuje”, “Guapparia” e “Uocchie c’arraggiunate”; non ultimo il grande Eduardo di Capua autore, tra le altre, della canzone più cantata e suonata in tutto il mondo fino ad oggi: “‘O sole mio”. Insomma quasi tutti gli autori musicali dei più grandi capolavori della canzone napoletana di un passato remoto… Invece, in un passato più vicino a noi, non possiamo che ricordare alcuni nomi più importanti di coloro che hanno studiato al San Pietro a Majella: il grande Renato Carosone, il maestro Roberto De Simone nonché il maestro d’orchestra Riccardo Muti. Ancora oggi il Conservatorio napoletano è considerato uno dei più prestigiosi conservatori ed al suo interno è presente un museo della musica che, quasi sicuramente, è il più importante al mondo.
Villanella ch’all’acqua vai
(Giovanni Leonardo dell’Arpa – 1560 ca.)
Villanella ch’all’acqua vai
moro pe’ tte e tu nun lu sai
Ahimmè, ahimmè!
Ch’io moro mirando a te!
Quanno vai cu la lancella
pari riggina e nun villanella
Ahimmè, ahimmè!
Ch’io moro mirando a te!
Non m’importa d’essere nato
‘mmiezze ‘a nu bosco o aggrazziato…
Ahimmè, ahimmè!
Ch’io moro mirando a te!
È un esempio delle composizioni del genere “villanella napoletana” del sedicesimo secolo. Si tratta di una breve poesia di ricercata e straordinaria bellezza. Il canto ci descrive un ambiente rurale in cui un innamorato nascosto guarda la fanciulla di cui è innamorato mentre essa si reca al pozzo. Probabilmente l’uomo non ha il coraggio di dichiararsi però è appagato dal solo fatto di ammirare l’amata.