Sporchi, tatuati, sanguinanti e tumefatti, i volti di “Gomorra” raccontano un sottobosco culturale ed una dimensione sociale continuativa che non ammette eccezioni, in un territorio interamente oscuro e sovra-geografico, la “Gomorra” appunto — sorta di quinta di una favola dell’orrore — e che non sempre trova la sua aderenza con i volti di chi vive, nel bene e nel male, in quei luoghi di Napoli nord, sì periferici ma non immuni agli spazi di bellezza.
Ma questo è il presupposto scenico di “Gomorra”, prodotto cinematografico così eccellente da rischiare di soppiantare la verità fisica delle Vele e loro adiacenze, affinché si “musealizzino” in un set, anziché aprirsi al cambiamento. Un trend inquietante è quello dei turisti spinti dalla curiosità di visitare non tanto il Castelnuovo, il Palazzo Reale o Capodimonte, ma i luoghi di “Gomorra”, come fosse un safari in cui provare l’ebbrezza di un proiettile vagante.
E questo stigmatizza le periferie, anziché guarirle. Ma il paradosso contiene in sé già un’altra antinomia, tutta propria del linguaggio di “Gomorra”, che è lo stridore tra la povertà disadorna e sincera degli oppressi, e lo sfarzo pacchiano e chiassoso degli oppressori. Mettendo da parte il carnet di oggetti di piccolo consumismo, palloni da calcio, qualche jeans firmato, oggetti devozionali e santini, propri della raffigurazione degli oppressi, è il kitsch degli oppressori a scrivere in ogni loro gesto e arredo, nella vita e nella serie, chi siano i “cattivi”.
Nella sua “Storia della bruttezza”, Umberto Eco ha definito questa degenerazione del gusto come “opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve”. In altre parole, e declinandolo a “Gomorra”, si tratta di un’espressione (non) artistica prepotente e accecante, e che, senza contenuti né tecnica, vuol fregiarsi di una magnificenza d’insieme che è in realtà un’oppressione ottica immediatamente soffocante.
Non c’è respiro ma vessazione, con la densità del vuoto. L’esempio più calzante è anche il più immediato: la casa/bunker/castello/quartier generale dei Savastano, immersa in un contesto urbano disastrato, fuori cinta da un muro orrido e carcerario, dentro mistura di ori e rossi accesi, abbondanza di tappeti e suppellettili da parco a tema, fino ad arrivare alle cornici dorate attorno agli schermi della tv.
Ogni dettaglio è evidente, e la loro stridente associazione conferma il paradosso: fotografie di famiglia con glitter e punti diamantati affianco a quadri d’autore, ostentati alla pari e senza distinzione; singoli oggetti di mobilio a metà tra il “grand goût” di Versailles e una casa delle bambole di fine Ottocento; abat-jour strozzati d’oro e ritratti di tigri ruggenti, o puma in pietra dura o ceramica sul pavimento; divani bombati e tappezzati, con gli immancabili ori, tali da suscitare perfino a Pietro Savastano il celebre “Nun me piace. S’ha da cagnà”.
Ma da dove si origina questa (non) arte? Principalmente dal desiderio di un potere secolare, tradizionalmente monarchico e per lo più assoluto, dell’Europa del Seicento, travisato però, ed asciugato dalla raffinatezza insuperabile ed autenticamente colta che quello stesso Barocco sapeva offrire, e ridotto a vano eco di magniloquenza danarosissima quanto violenta e bruta. La squisitezza cinematografica di “Gomorra” è anche questo: lasciare che gli occhi si scostino dalla storia per guardare alle immagini, e impararne la lingua.
Per secoli, gli artisti hanno riflettuto le ambizioni e le politiche dei loro committenti, spesso sanguinari tiranni, ma sempre e comunque consapevoli della bellezza. Questo invece, che è negazione della bellezza attraverso la sua finta esibizione, è un gusto che è metafora della stessa malavita: finto potere, finta gloria, finta esistenza.