Se il Risorgimento ebbe i suoi eroi in Mazzini, Garibaldi e tutti gli altri patrioti a cui sono intitolati edifici e strade in tutto il Paese, anche gli anni precedenti a quella stagione ebbero i loro campioni, quelli che si addossarono il compito, forse ancor più duro, di dissodare il terreno di mille provincie per piantare una nazione. Tra questi, un ruolo principale va al re di Napoli Gioacchino Murat, di cui l’anno scorso è stato celebrato il bicentenario del regno.
Questi, non solo fu tra i più eminenti sovrani partenopei di sempre, ma, in appena otto anni, e spesso andando contro le pretese imperialistiche di suo cognato Napoleone, amò e fu riamato da un regno e da una città che, più di un napoletano verace, immaginò per primo capitale di una nazione italiana. Il segnale del primo vero Risorgimento fu dato da un’audace campagna militare, grazie alla quale, trovandosi a Rimini, da lì, il 30 marzo 1815, forte di un regno che era da solo già la metà del territorio italiano, emanò un proclama col quale si candidava a liberatore dei popoli, per l’unificazione dello stivale.
Il proemio ha già tutto in sé: Murat, francese, in tutti i modi vuol sentirsi italiano, nel dire: «Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni». Talmente è preso il Re nella causa patriottica che osa perfino prendere ad esempio l’Inghilterra, giudicata di libero popolo e costituzionale, benché tradizionale nemica della Francia, che non è affatto nominata nel documento.
Ma il vero punto di forza è nella coscienza civile di un popolo d’italiani, che Murat già sognava, non solo chiamando i suoi già ottantamila soldati “degli Stati di Napoli”, superando dunque la logica del Regno di Napoli, ma più rifiutando ogni pretesa di alleanza con altri paesi, che l’Italia avevano in passato dominato, consapevole che nessuno stato investe uomini e denaro per la liberazione d’un altro — mutatis mutandis — senza alcun guadagno: «Il tempo opportuno non era per anco venuto, non per anche aveva io fatto prova della perfidia de’ vostri nemici: e fu d’uopo che l’esperienza smentisse le bugiarde promesse di cui v’eran sì prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire fra voi».
E lo stesso Murat, poi, cosa ci avrebbe guadagnato? Fuori dagli schemi retorici del documento, anzitutto avrebbe preservato un regno in pericolo, con l’Impero francese capitolato e l’Europa in cammino verso il Congresso di Vienna; ma la modernità del proclama, forse memore dell’avanguardismo della Costituzione napoletana di qualche anno prima, stilata dall’entourage di Eleonora de Fonseca Pimentel, parla non già di un conquistatore, ma, in toni che saranno quelli tipicamente risorgimentali, di un paese libero, costituzionale, rappresentato dai propri deputati.
A patto che «il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza», concetto che si riflette proprio nell’articolo 9 della Costituzione del ’99, che sanciva il diritto-dovere alla resistenza contro le tirannie. Gli esiti di quell’impresa, purtroppo, non furono all’altezza delle aspettative, ed il proclama, magna charta e mamma del Risorgimento, è stato dimenticato, spesso ignorato dalle scuole e dal mondo culturale, o relegato a mera appendice della stagione napoleonica ― così com’è spesso equivocata e trasmessa quella resistenza che fu il Brigantaggio.
La storia non si fa con i “se”, ed ogni processo d’unificazione è sempre portatore di sangue; però è quanto meno lecito immaginare e supporre un destino forse più moderno ed egualitario per le parti d’Italia, se quei progetti fossero andati in porto. Forse qualche morto innocente in meno. Forse qualche giovane costretto all’emigrazione in meno. Forse i balordi dissapori tra nord e sud mai nati. Un destino, in una parola, più unito. E, forse, Rimini capitale morale d’Italia e non solo della movida estiva.