È momento topico, certo. E non è possibile, dunque, non ripetere il mantra della “Napoli è mille culure” che, del resto, noi, pur nati altrove, amiamo, cercando di comprenderla, disvelarla, ogni giorno, prima di tutto a noi stessi.
È ora il caso delle Gallerie d’arte, spesso ignote ai più, eppure storiche, se per esse s’intende qualcosa che, presente nel Dna della città, sceglie anche chi può certamente essere un ramo del prossimo futuro, di “quell’albero” millenario che, non visto, fa da tendone protettivo alla città tutta.
Al n° 290/c, in un raffinato Palazzo di via Duomo, non esibito, come del resto tutta la strada, al primo piano, ecco, dal 2000, la Galleria MA, , di Lia Tufano, delicata artista (appena terminata una sua Mostra a Ferrara) che, sin dal 1995, ha portato avanti una ricerca costante in una città spesso legata più all’episodico.
Artisti già affermati ma anche un’attenzione precipua di ricognizione sui linguaggi dei più giovani, come Luca di Bernardo, 23 anni, molte collettive in Campania, spesso con patrocinio delle varie Soprintendenze, qui con la sua prima personale. Mostra senza titolo: scelta di nostro gradimento, convinti come siamo che persino un libro, romanzo o raccolta di poesie che sia, il lettore e, qui, uno dei tre protagonisti dell’opera – autore, soggetto, osservatore – possa immaginare una propria interpretazione. E se ogni grande del passato, recente o remoto, non lo ha fatto, nulla c’impedisce di operare, comunque, oltre alla loro, la nostra scelta. Non supponente ma soltanto dialettica.
Il 20 chiusura, con un reading dei poeti Marco de Gemmis, Domenico Mennillo e di Bernardo.
Sedici pezzi su carta e cartoncino, tutti rigorosamente in bianco e nero (“il colore mi estrania, forse anche perché sono daltonico”, dice di Bernardo), realizzati con cusaggine (carboncino), matita, penna biro (questa non più cancellabile!). Studi al Liceo artistico, laureando all’Accademia di Belle Arti di Napoli, in “Incisione”. “Ma non incido”, tiene a dire subito, che ci sembra più un desiderio di non essere etichettato o ingabbiato che una realtà. Perché ognuno dei suoi “disegni”, sicuri, dà, esatta, la sensazione di una straordinaria opera eseguita con il bulino e spinge al desiderio di sentire sotto la pelle i solchi delle epoche.
Soggetti? È la cosa più difficile, forse inutile, da indicare, tanto cose, animali, piante – ma sono poi tali? – s’intrecciano, singolarmente o insieme, quasi universo senza fine ove ogni passo debba, possa, essere dipendente e, insieme, discontinuo rispetto al resto.
Non a caso, provocato, ci dice che la “Mostra è dedicata al senso perduto, eppure all’esistenza delle cose”. Animali ed esseri umani, innesto e metafora atona, senza vita: centauri, sfingi? No, soltanto “cose” senza nome, che appartengono all’artista, “allegoria della perseveranza e mutazione del senso”, anche se tra essi compare un “okapi”, unico giraffide metà striato, metà nero. Che, superdotato, fa sì che gli cresca un’ala…assolutamente inutile. Dunque nessuna differenza – dice l’artista – “tra un oggetto e un superdotato. Essi hanno valore soltanto quando muoiono. E non perché io creda nella morte ma perché vi vedo un crepuscolo, sorta di muta che i serpenti trascinano”.
Ed ecco, sorta di sintesi, al centro della Mostra, un tappeto di foglie morte che di Bernardo raccoglie sul terrazzo di un palazzo antico del Centro storico dove di solito vive, dalla forma di uovo. Che ”non è la fine ma è “ab ovo”. Cose senza peso o, al contrario, che hanno più valore di tutto ciò che sembra averne molto di più. Del resto – continua – l’arte non ha tempo poiché è un fenomeno biologico. Non credo nel sistema artistico ma nelle contingenze. E, poi, io desidero creare dei grandi inetti”.
Studioso di Michel Foucault, filosofo, sociologo, storico (1926-1984), non può che essergli vicino nel vedere la “storia naturale che s’incammina verso la biologia”. Accolti da un ficus benjamin, sorta di “disegno dal vero” – ma non troppo – di una pianta secolare densa di protuberanze evocative che “nutrono per un attimo, mentre le mancanze, le mutilazioni, affascinano”, ecco, in esso, quasi una “svista”, una vagina, viva, affiancata da uteri profondissimi, ecco che concludiamo il percorso con un “virgulto-autoritratto”, un’aquila, l’uccello più intelligente, aggiunge l’artista. Che non condivide il nostro definirlo “leonardesco”, visto che “l’arte è un fenomeno biologico”.
Astrazione, surrealtà? Sorta di fondali, nei grandi disegni, “le proteiformi creature che giganteggiano dalle sue grandi carte – scrive Lorella Starita – sono collocate in equilibri instabili, su piani inesistenti, in un rapporto volutamente incoerente anche con la superiorità del foglio. Non resta che la precarietà, avvertita da Luca senza svilimenti patetici o inopportuni romanticismi drammatici”. Forse non sotto l’ala dell’okapi ma di Leonardo che, per li rami dell’inconscio, gli è davvero virgilio.