Tra superstizioni, residui di paganesimo, distorsioni della fede e pura e ancestrale paura della morte, gli uomini sono stati capaci di inventare qualsiasi cosa per aggrapparsi alla speranza di vita e buoni affari. Nella Napoli medievale, un mercante di nome Franceschino Prignale ha realizzato un vero e proprio monumento di quest’assunto, piccolo nella dimensione ma straordinariamente valido per la sua particolarità e bellezza.
La tradizione, divenuta ben presto famosa, e che già divertiva i viaggiatori e i curiosi che visitavano la città nei secoli, vuole che nell’agosto del 1361, per essere scampato due volte ad una tempesta, che ne aveva affondato le navi e ucciso l’equipaggio, Prignale eresse nella chiesa di San Pietro Martire (oggi cappella dell’Università Federico II), un curioso ex voto, per ringraziare la Santissima Trinità dell’aver scampato la morte.
Soltanto che, a differenza di ogni altro oggetto devozionale, raffigurante magari l’intervento prodigioso di un santo in un contesto di morte imminente, Prignale decise di raffigurare piuttosto se stesso in dialogo con la Morte. Si tratta, più precisamente, di una lapide di modesta fattura e con un’iscrizione in italiano volgare — il che già indica sì la condizione agiata ma l’estrazione non raffinata del mercante — in cui Prignale è raffigurato sopra i corpi, onorabili e coronati, dei suoi compagni morti affogati ai suoi piedi, mentre tenta di “corrompere” la Morte svuotandole davanti un sacco pieno di monete. Dalla sua bocca un cartiglio — sorta di antesignano del fumetto — con la sua battuta: “Tutti te li volio dare, se mi lasci scampare”. Ma la Morte, con due corone sul teschio, raffigurata come una cacciatrice, con una frombola nella mano destra ed uno sparviero sulla sinistra, nella sua noncuranza delle cose terrene risponde: “Se mi potessi dare quanto si pote dimandare, non ti pote scampare la morte, se ti viene la sorte”.
Ovvero, nessuna cifra può saldare la condizione di provvisorietà e fragilità della vita umana. L’ex voto, che comincia la sua narrazione quasi come un saggio sulla stupidità umana, che vorrebbe acquistare perfino l’immortalità col danaro, diviene un vero e proprio trattatello di morale sulla condizione umana, riflesso di un secolo, il Trecento, che meno di vent’anni prima della lapide di Prignale aveva conosciuto l’epidemia di peste nera che stroncò mezza Europa.
Infatti, la Morte amplifica la sua risposta in un vero e proprio poemetto, minuziosamente scolpito in caratteri gotici, come una lapide nella lapide, in cui ella parla di se stessa come — parafrasando in lingua corrente — : “Io sono la morte cacciatrice, e cerco voi, gente del mondo, sia la malata che la sana, di giorno e di notte. Nessuno fugga nella tana per scampare al mio laccio, perché tutto il mondo abbraccio e tutta l’umana gente. Nessuno si conforti, bensì si spaventi, perché ho per comandamento di prendere secondo la sorte. Vi sia di insegnamento questa mia raffigurazione, e pensate piuttosto a salvarvi”. L’inquietante messaggio della Morte è uno dei consueti “memento mori” di una civiltà che viveva la fine non come una rovinosa caduta, ma piuttosto come una “livella” — per dirla con Totò — ed una regina assoluta a cui ci si poteva sottomettere fin dalla nascita. E benché naturale, l’immaginario tardo medievale, pur in una cultura ed in un regno culturalmente avanzatissimo e tra i più raffinati del tempo, non poteva che raffigurarla in un modo però “terribilista”, legandosi piuttosto al timore della punizione infernale che al trapasso stesso.
La naturalezza della morte è infatti associata a quella dell’uomo, cacciatore per necessità e per istinto di fame; solo che, mentre l’uomo obbedisce alla legge del suo stomaco, la morte a quelle che le ha impartito direttamente la natura. Oggi la lapide è custodita presso i sotterranei della Certosa di San Martino, sopravvissuta agli interventi di sventramento urbano ottocentesco seppur parzialmente danneggiata, ma conserva tutta intatta la sua storia e la sua bellezza. Storia e bellezza che, come al solito, meriterebbero di essere condivise e conosciute più e più spesso, e che invece tacciono, superate perfino dall’eloquenza della Morte.