Marechiaro: risorgere in un palpito di mare

Marechiaro
Marechiaro
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Marechiaro è un antico borgo di pescatori del quartiere Posillipo di Napoli. Quando un napoletano pronuncia la parola “Marechiaro”, ciò che è emesso dalla sua bocca è un sospiro di pace.

Se “Pausilypon” vuol dire “sollievo dal dolore”, “mare planum” (da cui Mare-chiaro) significa invece  “specchio d’acqua tranquilla”, insenatura in cui il mare gioca con la rena con calma, monotonia, quiete. Quando un napoletano si reca a Marechiaro, da solo, per dare sfogo ai pensieri, o in compagnia del suo amore, non sta cercando acque chiare e scintillanti, bensì un rifugio in cui il mare, per primo, arrivi discreto a confessare alla riva i suoi segreti.

Marechiaro: mistero perenne

Il particolare che ha reso celebre in tutto il mondo il borgo di Marechiaro è certamente ‘a fenestella, una piccola finestra di una delle casarelle del borgo, immortalata dai versi del poeta Salvatore Di Giacomo, nel 1885. Come è possibile che una finestra, abbellita soltanto con un piccolo garofano in un vaso (int’ a na testa), diventi una delle immagini più riprodotte al mondo in cartolina (e, forse, ora anche nei post)?

La risposta, forse, sta nel mistero. Di Giacomo dice e non dice… Di sicuro dietro quelle lastre di vetro c’è una donna. E il viso di questa ragazza deve avere qualcosa di straordinario, un dolcezza e dei lineamenti fuori dal comune. I versi di Di Giacomo, infatti, paiono “ammicare” nientemeno che allo stil novo, per la potenza evocativa delle immagini che creano.

La terza strofa del “canto” digiacomiano ricorda alcuni “passaggi” danteschi. “Lucevan li occhi suoi più che la stella” scrive il poeta fiorentino, riferendosi a Beatrice, nella Commedia. E anche gli occhi di questa guagliuncella napulitana, della ragazza di Marechiaro, hanno una forza e un potere superiore a quello degli astri.

La donna-angelo di Di Giacomo

Sei secoli dopo l’Alighieri, ecco un’altra donna “scesa a miracol mostrare”. Di Giacomo ne descrive così il volto: “Chi dice ca li stelle sò lucente/nun sape st’uocchie ca tu tiene ‘nfronte/sti ddoje stelle lli ssaccio i’ sulamente/dint’ a lu core ne tengo li ppònte.

Davvero l’accostamento con le luci del cosmo – che in Dante è ovviamente accostamento al divino – e la descrizione del “dolore” quasi fisico che si soffre fissando gli occhi della donna, fanno del “sonetto”  digiacomiano una sorta di ode alla donna-angelo stilnovista. Una “divinizzazione” tutta napoletana del prodigio che è ‘a femmena.

Che bellezza, che occhi, che corpo ci saranno dietro quei vetri? E’ possibile che, nascosto dietro a quel pertusillo di muro, ci sia un essere talmente seducente da smuovere persino la calma di quelle acque così serene e immote?

Che succede al mare? La “vita agitata” di Marechiaro

In effetti a Marechiaro sembra accadere qualcosa di magico, come se dalla fenestella partisse un magnetismo che smuove le acque del mare. E due sono le artefici di questa magia. Ddoje femmene. La luna e la ragazza della finestra.” Quanno sponta la luna a Marechiare/pure li pisci nce fanno all’ammore”. Ma l’acqua murmulea anche sotto la finestra, attirata fino alle mura della casarella dalla presenza dell’incantevole fanciulla.

Una storia controversa

Ma cosa c’è di vero in tutta questa storia? Pare che Salvatore Di Giacomo, anni dopo aver composto la poesia, abbia testimoniato di non essere mai stato, in realtà, a Marechiaro. E dunque anche la ragazza il cui nome compare, invocato con passione, nell’ultima strofa, ossia Caruli’, sarebbe un’invenzione.

Ma ciò sarebbe stato smentito da alcuni abitanti del borgo, tra cui il gestore di un’antica trattoria della quale il grande poeta napoletano era, invece, ospite molto frequentemente. E se fosse stato un amore non corrisposto o, al più, impossibile da realizzarsi nella realtà? ‘A fenestella sarebbe rimasta, in questo caso, nel cassetto dei sogni irraggiungibili per Di Giacomo. Dei sogni da dimenticare o, perché no, negare anche a se stessi.

Il mito della fenestella sarebbe arrivato a noi, dunque, intatto nel suo “mix” di magia e sofferenza: ‘nu pertuso scuro che ci fissa da llà ncoppa, dal quale non si affaccerà mai nessuno, se non le creazioni della nostra fantasia. In un certo senso ‘a fenestella è l’immagine “universale” di una storia che si chiude, di due scuri che sbattono costringendoci a voltarci con le lacrime agli occhi, ora che neanche le onde del mare sembrano avere giocondità nel loro sciabordìo. Anzi, il loro mormorare insistente sembra ormai la conferma ossessiva di un congedo, il ripetersi spazientito di un addio che non vogliamo comprendere.

Una magia per tutti

Ma, nonostante questo, Marechiaro è sinonimo di quiete, di ascolto delle onde del mare, e di eros. Sì, di eros. Non sapranno mai, i napoletani, quali occhi si sono aggirati una volta, felini, dietro quella finestra, pungenti come lame. Ma non fa nulla, perché sanno quali braccia stanno stringendo in quel momento sulla riva, mentre “se revòtano ll’onne de lu mare”, e “pe la priezza cagneno culore”: un “rivoltarsi” calmo, tutto sommato, quello di quest’acqua, come il rumore di un bacile o di un’annaffiatoio che vengano agitati e svuotati, piano.

L’acqua di Marechiaro è il quotidiano delle pulsioni marine di Partenope. C’è un mistero, sì, ma che non punge, non fa male: è un mistero assurdo, un mistero che calma.

 

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