Scrittrice e giornalista, prima donna italiana a fondare un giornale, Matilde Serao è stata narratrice fedele della Napoli più autentica.
Matilde Serao nacque nel 1856 a Patrasso, città sulla costa nord-occidentale della Grecia, dall’unione tra una nobildonna greca e un avvocato napoletano antiborbonico in esilio: Paolina Bonelly e Francesco Serao. La famiglia si trasferì poi a Napoli attorno al 1861, dopo la fine del regno borbonico e l’avvento dell’Unità d’Italia.
Per una serie di sfortunate vicissitudini familiari la sua educazione procedette a rilento, ma il contatto costante con le redazioni giornalistiche dove lavorava il padre già piantò in lei il seme di quella che sarebbe stata una potente vocazione ancor prima che una professione.
Iniziò ben presto a scrivere articoli, bozzetti e novelle, si trasferì poi a Roma dove collaborò il con Capitan Fracassa, giornale letterario e satirico del tempo. Con l’uscita del libro Fantasia (1883) arrivò la fama e, con lei, le prime critiche al linguaggio schietto e diretto, e a quello stile che lei stessa definì ‘rotto’ ma proprio per questo ‘vivace’ e ‘caloroso’.
Come nelle trame dei più classici romanzi rosa, fu proprio dall’incontro tra Matilde Serao e uno dei suoi critici, il giornalista Edoardo Scarfoglio, che nacque una lunga storia d’amore, oltre che una fruttuosa collaborazione lavorativa. Matilde e Edoardo furono infatti moglie e marito ma anche colleghi, fondatori e codirettori del Corriere di Roma prima e del Mattino poi.
Il giornalismo era per la Serao un modus vivendi: il suo personale strumento per osservare e rielaborare il mondo, per denunciarne le ingiustizie, per scorgere i punti in cui la tela perfetta cede lasciando straripare la vita vera. È questo ciò che ha fatto con Napoli nei suoi scritti: andare oltre la (seppur bellissima) superficie e scavare nel profondo, in altre parole ‘sventrarla’.
Così ne Il ventre di Napoli (1884), capolavoro indiscusso del suo periodo verista, Matilde Serao parla di una città piegata su se stessa, preda dell’epidemia di colera, di una classe politica disinteressata, di un popolo così abituato ad arrangiarsi da smettere di volere qualcosa in più.
Coraggiosa, irriverente, una voce fuori dal coro, dotata di quella che Benedetto Croce chiamò una “fantasia mirabilmente limpida e viva”. Fantasia che emerge con più forza in Leggende napoletane (1881), un “libro d’immaginazione e di sogno” così definito dalla stessa Serao, pensato e concepito come pausa dalla “severa arte moderna”. È in questa raccolta di racconti che la scrittrice omaggia e canta Napoli nella sua straordinaria unicità come città dell’amore, città in cui non si “sogna nella vita” ma “si vive in un sogno che è vita”.
Stando alla narrazione della Serao, Napoli sarebbe nata dalla storia di Cimone e della bellissima Partenope, due giovani costretti a fuggire dalla Grecia per vivere insieme. Giunsero qui e «vi portarono l’amore» perché «dappertutto essi si amarono». Da questo amore nacquero 12 figli e da loro il popolo napoletano. Ma sbaglia chi crede che Partenope sia morta e ne cerca invano la tomba perché, secondo Matilde Serao, «Partenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella. […] È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare».
Allora, attingendo un po’ dal mito e un po’ dalla genetica, mi piace pensare che qualcosa di Partenope sia in tutti noi, discendenti lontani di un’unica madre. Come se un filo rosso, un’innata vis, una forza vitale, animasse tutte le donne partenopee e ne segnasse le sorti: fruitrici comuni delle ricchezze di Napoli, portatrici delle stesse croci, spettatrici degli stessi eventi, nate e forgiate nella città del sole, del mare, dell’amore ma anche della criminalità, dell’emergenza rifiuti, della terra dei fuochi. Nella città delle contraddizioni.
Così da Matilde Serao alle prossime, raccontando le donne di Napoli per capire ciò che le rende simili, ciò che le distingue e quanto e cosa di Partenope abiti ancora nelle sue figlie.