Mentre la città scoppia di vita, un uomo dorme su una panchina. Forse ha una storia da raccontare. La conosce solo Mattia.
È un altro martedì, attendo il C16 alla pensilina. La città è sveglia e si sente. I rumori più disparati partecipano alla sinfonia urbana. Ecco la sirena di un’ambulanza, ora la marmitta di una moto, si accoda un trapano in lontananza, o forse è una sega circolare? Il Corso Vittorio Emanuele è trafficato a singhiozzi. Nei punti in cui il flusso delle auto è più diradato, anche la natura fa la voce grossa. I garriti dei gabbiani sembrano risate sguaiate.
La sensazione è che in questo momento non esista un metro quadrato adatto alla contemplazione. Non c’è spazio né tempo per il silenzio. Tutto sembra dire: «Il sole è alto. Siamo a Napoli. Bisogna vivere!» Solo un uomo si oppone a questa ostentazione energica del mattino. È steso su una panchina. Dorme. Si copre il volto con un berretto. Lo zaino come cuscino. Un cartone sotto il corpo per attenuare la durezza del giaciglio.
Sembra patire il caldo e i rumori. È ormai svanita l’effetto di invisibilità in cui lo avvolgeva la notte. Vista dall’alto la sua maglia fucsia è un piccolo pallino di quiete all’interno del vorticoso movimenti cittadino. Chi ama i paradossi può notare che nel suo tentativo di rendersi invisibile, il colore della maglia è un pessimo alleato.
Certamente non è invisibile per Mattia, un grazioso bimbo che passeggia mano nella mano con la madre. «Chi è lui?» dice il piccolo indicando la panchina e avvicinandosi a piccoli passi all’uomo. «Un…signore che dorme. Non lo svegliamo. Vieni qui Mattia» risponde la madre tirandolo a sé. Mattia sembra deluso dalla risposta. Credo cercasse una storia più interessante.
«E quello cos’è?» Con la stessa meraviglia ora indica il marciapiede opposto. Dalla risposta della madre capisco a cosa si riferisce: «Un castello. Come quello delle fiabe!» Il piccolo indica infatti il castello Aselmeyer. Uno splendido edificio neo-medievale che sovrasta il corso e richiama le ambientazioni del fantasy vittoriano. Mattia, stimolato dall’immaginario fantastico richiamato dal castello, sembra perdersi nella danza della sua immaginazione. Mi sembra abbia dimenticato la presenza dell’uomo.
Ma ecco che in un battito d’ali il piccolo umilia la superficialità del mio pensiero. «Il signore vive nel castello?» chiede alla mamma. «No amore. Il signore non ce l’ha una casa» risponde lei con dolcezza. Poi, temendo l’intristimento del figlio, gli indica il rosa acceso dei fiori estivi che colorano la via. «Andiamo a vederli da vicino!». Mattia non sembra convintissimo.
La lontananza non mi permette di sentire cosa dice. La sua espressione è genuinamente sorpresa, confusa. Mentre cammina continua a girarsi verso l’uomo. Ha la prossemica della curiosità pura. Una curiosità che è attenzione, cura. Non vorrebbe lasciare il signore senza sapere chi è, perché è lì. Forse lo inviterebbe a stare per un po’ nella sua casa. Non sarà un castello, ma Mattia una casa ce l’ha.
Mattia e la madre sono ormai passati. Il C16 ha appena superato il semaforo di Parco Margherita e sta per fermarsi. Prima di salire a bordo lancio un ultimo sguardo sulla panchina. L’uomo è rimasto immobile, ma adesso mi pare diverso. Provo ad imitare la danza di Mattia e mi immergo nel mondo di possibilità che ha aperto. Ora torna tutto. L’uomo è un cavaliere che ha passato l’intera notte a difendere il suo castello dai fantasmi. Il suo riposo è più che meritato. Ora anche la sua maglia fucsia mi pare intonata al contesto. È un’armatura del colore dei fiori della via.
«Avevano ragione i tuoi occhi.» Vorrei dirlo a Mattia.
Altre storie della rubrica ‘Napoli ritratta’: pioggia a Giugno e arcobaleni