A Miano, una mattina qualunque di un giorno feriale qualunque. I vagoni della Metro, capolinea Piscinola, sono quasi vuoti: non è orario di ritorno a casa, molto silenzio, mi guardo attorno con la mia personale curiosità umana per la necessità di capire i pensieri del mio dirimpettaio.
Certamente non per entrare nei fatti altrui, ma esattamente per il motivo opposto: gli abitanti della nostra città, si pongono in modo diverso nei confronti dei vari quartieri che la compongono. E, a volte, anche lo sguardo, il sorriso, si adattano ad essi. Fisionomie sfuggenti, quasi tutta gente di mezza età, ognuno – sembra – attento a non far percepire la propria personalità. Volendo, o non volendo, mi sorprendo a dire a voce alta e interrogativamente il nome della mia destinazione, Frullone-Chiaiano a Miano, quasi a giustificare un attimo di distrazione. Con poche parole gentili, una giovane donna mi sollecita a scendere: sono arrivata.
Ero stata altre volte da queste parti ma, da subito, mi accorgo che occorre sempre lasciare a casa ‘i propri abiti’, se vuoi essere accettato. È come – mutatis mutandis – andare all’estero e mangiare nei ristoranti italiani: si può fare, ma senza nessuna pretesa di ‘credersi’ all’estero.
Naturalmente ciò vale anche per ‘gli altri’ verso di me. E si scopre che c’è sempre modo d’intersecarsi.
E’ stato molto bello, sereno, arrivare alla mia fermata; perché, a dispetto di ciò che s‘immagina, la Metro non è sempre sotterranea, così come la Circum verso il mare, altrove, svela, imprevisto, il languore o lo sfolgorio totale delle acque di colore diverso.
Uscendo dai tunnel, vi giungo in superficie: immagino che il trenino sia visto come un’ipotesi di unione. Io, intanto, posso abbracciare con lo sguardo a grande raggio campi, piccole case rurali, gruppi di piante, viuzze impreviste: a Miano si arriva uscendo allo scoperto. Certo, complice una gran bella giornata di sole: dunque misconosciuta, chiusa, non fa nulla per nascondersi. Un ossimoro? Via Vecchia Miano Piscinola, il verde che vuole sbucare dai vecchi orti, il Cimitero inglese tenuto benissimo, mentre i palazzi antichi cominciano a fare capolino. Incuriosisco: come la mia macchina fotografica. Pur accompagnata da mianesi, sembra che io ‘veda’ cose mai viste. Cominciano i piccoli capannelli, mi arrivano sussurri perplessi, ci si chiede se… sia successo qualche fatto di cronaca nera. Ma io sorrido e, pian piano, iniziano a fidarsi e a propormi di vedere luoghi sconosciuti. Chiedo di aspettarmi: vorrei fare prima un giro ‘non guidato’. Si fidano: è come una chiamata a raccolta; è come un ripercorrere l’atmosfera dei vecchi casali.
Infatti Miano era un vecchio casale: “la via che da Napoli portava a Capua ed a Benevento – scriveva Michelangelo Schipa – salendo per il Capo di Chio (= Capodichino), tra borghi, villaggi e terre, aveva sulla sinistra, Miano, Piscinola, Chiaiano”. Mentre, in Gabriele Monaco, Giustiniani dice che, lungo la via che lungo il Bosco di Capodimonte menava a Miano, la più frequentata, “vi era il così detto Cavone di Miano, che cominciava sotto l’altura di S.Maria dei Monti, ai Ponti Rossi, luogo assai pericoloso, per la presenza dei ladri da una parte e, dall’altra, per la fiumana di acqua che, durante le piogge, scendeva sino a formare un torrente spaventosissimo”.
Oggi, invece, da alcune case a corte di via Mianella, fine ‘800, ristrutturate con molto gusto, scale esterne e cancelletti in ferro battuto, collezioni di oggettistica già dalla terrazza, il ‘cavone’ e, laggiù, il Bosco di Capodimonte, infondono un senso di pace e di protezione: tanta vegetazione, un silenzio irreale, i colori che hanno già un senso di prima estate. Poi…. molti hanno preferito inurbarsi, pochi i mianesi storici , mentre alcuni, al contrario, sono arrivati qui attirati dai prezzi abbordabili degli immobili. La guerra, il terremoto dell’80 e la chiusura della Birreria Peroni hanno modificato molto le caratteristiche del luogo. Ma ci arriviamo per gradi.
Miano, tra i più piccoli ma popolosi quartieri della periferia nord, si compone di una superficie di poco meno di due kmq con circa 26.000 abitanti. “Prima dell’ingrandimento del Comune di Napoli -scrive Giovanni Liccardo, 2008 -, realizzato durante l’era fascista, ha fatto parte dei disciolti Comuni di Secondigliano, Chiaiano e Comuni Uniti. Attualmente, insieme con Secondigliano e San Pietro a Patierno, costituisce la Settima Municipalità del Comune di Napoli. Con le altre grandi periferie è stato un po’ dimenticato e abbandonato al loro triste destino di sottosviluppo.
Eppure già esisteva la grande Fabbrica, la Birreria Peroni: la storia inizia ai primi del ’900, quando la ditta omonima, dalla sede centrale di Roma decide di rilevare le Birrerie Meridionali di Napoli -uniche fabbriche specifiche in tutto il sud – per farne, appunto, la propria base di espansione in tutto il meridione.
Nel 1937 il laboratorio produce birra anche per l’Africa Orientale. Quasi completamente distrutta dalle mine tedesche durante la Seconda Guerra mondiale, viene ricostruita nel 1952 come fabbrica modello, importando i concetti razionalisti degli Stati Uniti, in base ad un piano volumetrico dello Studio associato Harley-Elligton & Day di Detroit. A Miano, fu l’architetto Luigi Racheli a concretizzare l’opera, riuscendo a dare forma ad uno dei primi esempi di architettura industriale ‘illuminata’, nata con l’intenzione di combinare produttività ed impatto ambientale.
E qui, arrivandoci con il desiderio di conoscere e di riferire senza intromissioni, si sono fidati anche i sardi del Gruppo Cualbu (forse il merito è dei 150 anni dell’Unità d’Italia?), notoriamente, storicamente, e ammesso da loro stessi, un po’ diffidenti verso i’continentali’, visto che, dopo qualche prima remora, mi hanno fornito risposte davvero esaustive su cosa diventerà, con loro, la Birreria Peroni. La Media com s.r.l., Gruppo Cualbu di Cagliari, acquirente, 2006, dell’intero stabilimento, è proponente e finanziatrice del Piano di Recupero ‘La Birreria’, approvato con delibera di Giunta comunale di Napoli, Gc 529/2012 n°64 del giugno 2012.
I progetti per il futuro donano una speranza nuova verso il domani di Miano, di Napoli: il muro, vero e simbolico, che sembra dividere in due Miano, certamente sarà ‘abbattuto’.
E, ne sono sicura, anche il piccolo centro storico ne trarrà vigore: i palazzi dal ’500 all’800 saranno ristrutturati, fregi e cortili riprenderanno un antico splendore. Come i pochi palazzetti d’inizio ‘900 che, riportati dopo il terremoto ad un’elegante visibilità, già riaprono il cuore, rispetto all’edilizia della famigerata ‘219’, la legge post terremoto, quasi i prefabbricati come modello edilizio!
Riprendiamo il nostro giro: escono dai palazzi tanti abitanti del quartiere.Tutti vogliono farci vedere qualcosa. Tutto è storicamente fatiscente ma è la radice dell’oggi. Qualcuno ci chiede di entrare in una cappellina fronte-strada: una stanza ‘di casa’. E’ dedicata a San Gaetano, patrono del quartiere. ‘Lui’ ci aspetta a grandezza umana, accanto all’altare, mentre ci indicano i preziosi oggetti sacri molto antichi, ci lascino fotografare, c’invitano per l’inaugurazione del Presepe fatto da loro stessi, una parete intera, ogni angolo la riproduzione di un vecchio mestiere. Ma ancora vivo, per fortuna. Mi viene spontanea una domanda: “le avete fatte vedere queste cose ad altri giornalisti?” Un attimo di silenzio. Poi la risposta, “Signò, qua vengono solo quando succedono i fatti brutti. Voi siete la prima che ci considerate!”
Questa cappellina era parte integrante dell’attigua ‘La Pazzaria’, una facciata cinquecentesca che ci ricorda l’architettura di Carinola, dove venivano, ahimè, rinchiusi, i malati mentali. Di fronte la diruta Villa Russo, anch’essa adibita allo stesso ‘uso’ ma chiusa recentemente. Nell’ex ‘Pazzaria’ oggi vivono circa 45 famiglie; molte, nel cortile, le terrazzine e le verande in bella vista.
Accanto, una vecchia bottega artigiana: padre e figlio , creativi artisti di pulcinella e figure presepiali. Molti i materiali usati. Nessuna copia dalla vicina città madre. E la bottega si è aperta, l’invito a fotografare anche.
Più giù ci aspetta un altro Gaetano: ci conduce, il quartiere partecipe, al ‘convento-carcere’, ci dice. Eh, sì, perché nell’immaginario collettivo le due strutture erano equivalenti!. Non a caso esiste ancora, tra il popolo, l’espressione, “È andata a chiudersi”, intendendo una ragazza che diventa suora. Tante le inferriate nel vecchio borgo: e tanti sono stati – qualcuno lavora ancora, qui e nella regione – i fabbri, gli stuccatori, i falegnami, i restauratori di piperno (pietra elettiva). Persino al Museo di Capua ha lavorato un altro Gaetano che ci mostra la lunga e stretta scala della sua casa!
“Il resto di ciò che fu! – ma lo dicono con orgoglio – Possibile che v’interessano queste cose?”. Rispondo sorridendo e salutando a lungo, fino alla curva del vicolo.
Solidarietà come spinta a sentirsi uguali e a poter essere uguali. Con la mia ‘guida’ vengo attirata da un profumo del buon tempo antico: un forno a legna, del pane che non mi permette di resistere alla tentazione di assaggiarlo subito. Pane come Amicizia. È il sentire giusto per raggiungere, poco dopo, il Rione Don Guanella, dedicato al Beato sacerdote nato a Campodolcino (Sondrio) nel 1842 e morto a Como il 24 ottobre 1915. Molto legato a Napoli, amico di don Giovanni Bosco e del Beato Bartolo Longo, è stato canonizzato da Sua Santità Benedetto XVI il 23 ottobre 2011. Che Miano venga citata, finalmente, anche per un Santo?
Perché a Miano ‘l’Opera don Guanella’, la Scuola, il semiconvitto, il parco, le sedi per le Associazioni di volontariato? Perchè la famiglia Fernandes, avvocati e possidenti – anche del terreno su cui sorgerà l’Opera nel 1963 – ha voluto essere benefattrice del quartiere, pensando agli orfani e ai ragazzi a rischio, in memoria della figlia Elisa, morta a 18 anni a Sorrento, 1944. Intitolandola a don Guanella che aveva sempre focalizzato la sua attenzione agli ultimi, occupandosi anche dei primi emigranti in partenza dal porto di Napoli.
Torno alla Metro: laggiù un palazzo Liberty s’innalza nobile. Potrebbe essere ancora molto bello. Intanto gli fanno da riparo in cui sperare, tredici pini marittimi, alti e sicuri, a velare quelle case, eco di umanità da dover far rivivere. Non sono una scenografia filmica. Esistono.