È il titolo della prossima Personale dell’artista Francesca Panico, che avrà luogo presso i saloni del Castello Ducale di Corigliano Calabro (Cs), adibiti a museo di arte contemporanea, dal 14 Novembre al 5 Dicembre. La mostra della Panico – della quale abbiamo riportato una suggestiva intervista per il precedente numero cartaceo della Rivista nel mese di Marzo –, curata dal critico Gianfranco Labrosciano, si interesserà a sviscerare attraverso un linguaggio segnico, tipico di una pittura non figurativa che si vale di particolari segni grafici, ed informale, escludendo ogni forma tradizionale e cercando di esprimere le forze e le suggestioni della materia con la presentazione di libere associazioni, “le atmosfere, l’humus e l’ambiente del paesaggio napoletano, sia naturale che urbano”.
Nell’intervista, l’artista raccontò il primo contatto con il critico calabrese, avvenuto tempo fa nel corso di una mostra a Castel dell’Ovo, e come lo stesso seppe indagare nello spirito di Francesca : “Gianfranco Labrosciano volle vedere a fondo nel mio trascorso: cosa ti è accaduto, mi disse. Individuava nelle mie opere una profonda sofferenza. Tu mi nascondi qualcosa, continuava. E intanto procedeva con la critica. Dopo un anno trovai la forza di aprirmi e raccontare. E Labrosciano, che sobbalzò dalla sedia: io lo sapevo, tu avevi qualcosa dentro. Dove altri vedevano gioia, era riuscito a vedere dolore. E nella gioia, discorrendo attraverso il dolore, io ritrovo un’insaziabile energia”.
Labrosciano nel proprio romanzo, “Tropico del caos” (1996), constatò la dualistica essenza della città di Napoli – “Napoli è pietra e sballo”, disse – paragonandola ad “un angelo bestiale e celestiale che nell’orrore e nella sofferenza si è coagulato per arrivare a questa dimensione di pietrificazione, che non è di morte, ma di vita”, ed aggiunse, “è sballo per il fatto di porsi sempre come resistenza, perché al di fuori di questo non può vivere. In questo senso è coagulazione, pietrificazione e sintesi, ed è anche sballo come conseguenza della reazione totale, fino all’assurdo”. Lo stesso critico ritorna oggi a commentare la realtà, con una precisazione però. “Sono trascorsi molti anni da quando ho scritto questo romanzo, che non ho pubblicato per una ragione: cercavo un artista napoletano capace di rappresentarlo con tutta la forza della verità che a mio giudizio avevo manifestato.
Ed ecco che all’improvviso, e proprio a Napoli, mi capita di incontrare Francesca Panico, che Napoli la vive e la abita con la sua arte come fosse un vestito, una seconda pelle che respira e trasuda l’intima essenza di cui la città è intrisa, con tutto il suo folklore e il suo splendore, la sua grandezza, la sua terribilità e la sua dolcezza, a cominciare dalla materia pittorica arroventata, arrovellata, solcata, attraversata da quel dolce furore vitale, esuberante eccessivo, che mi è parso di scorgere solo a Napoli e che duplica in festa e in scialo, nell’orgia della baldoria e dell’allegria la tragica e spesso dolorosa condizione della vita”. L’artista indaga continuamente sulle cause del “mondo gettato”, toccando e prendendo contatto con le sensazioni, “gli inamovibili relitti d’inquietudine”, e contemporaneamente elabora nel mistero “una storia degli uomini, dei popoli e delle cose”.
Conclude il critico: “La specificità dell’arte di Francesca, allora, non è quella, così mi pare, di inventare un soggetto o trovare una configurazione, ma lo sforzo di dare forma a concetti percettivi di un contenuto particolare: l’ambito di una prospettiva lunga, fondatamente astratta, che assume l’identità e la condizione come forme stesse dell’operare estetico, l’immagine dell’abitare una maschera o un calco in gesso per rimanere, alla fine, privi di una qualunque forma con l’intento rappresentarle tutte”.