Napoli in celluloide: Nanni Loy

Nanni Loy
Nanni Loy

Nel rivedere un film di Nanni Loy, la prima domanda sensata da farsi è come mai sia stato messo da parte, o solo sfiorato da una popolarità duratura e costante nella memoria collettiva del nostro cinema. Eppure, la sua intelligenza appare ancora oggi lucida, acuta, sopra le righe, surreale. Una intelligenza che si conserva gentile e umana, nonostante egli l’abbia esercitata con cinismo limpido e realista, talvolta con un’ironia sferzante e sovversiva. Loy è riuscito a spiegare che il nostro Paese si colloca tra quelli dove basta un niente per trovarsi da una o dall’altra parte; e che dal non detto, dal “rimosso” della storia occorre ripartire per ricavarne qualche idea buona.
Nato cagliaritano ma napoletano di adozione, Nanni Loy è stato un cultore e un acuto osservatore della fenomenologia della città, ch’egli amava per molti motivi: “Avevo una nonna veneta che viveva a Napoli; quando eravamo bambini da Cagliari andavamo a trovarla spesso d’estate, quindi era un po’ la mia seconda città. E soprattutto noi sardi eravamo innamorati di Napoli, era la nostra capitale culturale, non tanto per il grande teatro, la grande fantasia, le grandi canzoni di musica leggera, ma anche perché era un faro culturale: c’erano i grandi studi giuridici, i grandi studi filosofici, Benedetto Croce… per cui Napoli era la nostra vera capitale, mai stata Roma, tanto meno Milano. E ho lavorato a Napoli come aiuto regista di Zampa, quindi, insomma, avevo dimestichezza con la città, e soprattutto ci stavo bene. Insomma, mi piaceva”. A Napoli egli ha ambientato pellicole e sviluppato temi nodali nei suoi trent’anni di attività, riuscendo così a coglierne aspetti diversi e a documentarli nel tempo. Si ispira alla storia di Napoli il primo film che l’ha consacrato al grande pubblico e alla notte degli Oscar nel 1962: Le quattro giornate di Napoli, il racconto in 8 mm della Resistenza napoletana, istintiva e disorganizzata, che scacciò l’esercito tedesco. Un ritratto corale, nel quale ogni voce, anche la più piccola, trova il suo spazio, si manifesta all’interno di questo bozzetto di storie nella Storia. La fucilazione di alcuni militari italiani, insieme all’escalation di violenza e rastrellamenti ad opera dell’esercito del Terzo Reich, innesca una progressiva e capillare ribellione nei cittadini che, da vittime della guerra, diventano ribelli e inesperti persecutori degli occupanti. Epico è l’argomento, non il modo di raccontarlo: la ribellione non è un gesto politico, bensì nasce da un coacervo di insofferenze, tenute insieme dalla rabbia contro gli assassini della vita. La resistenza, spogliata dai suoi fantomatici eroi, nasce per alcuni dall’insofferenza per un fascismo ventennale, per altri da fame, distruzione, ed esercizio arbitrario della violenza. L’onestà e la stringatezza del racconto contribuiscono a sostituire la verità alla retorica; per Loy il carattere tipico e decisivo de Le quattro giornate è nell’essere davvero storia collettiva di una città e, perciò, un momento di valore civico assoluto. È questo il senso di tutta la sua opera, seppur variegata nelle forme e nei mezzi utilizzati: “A me interessa fare film attraverso i quali si denunci la carenza di certi valori nella società italiana di oggi, valori come la solidarietà, la comprensione, lo spirito di sacrificio, l’altruismo; valori che si possono definire civici o anche nazionali. Il boom economico ha allentato i legami affettivi e spirituali che dovrebbero esistere tra uomini”. Che lo sguardo sia al presente o al passato, poco importa. Una regia magistrale mostra una città distrutta e monumentale, spoglia e scultorea, dalle rampe di San Marcellino deserte durante un agguato, ai palazzi dei Tribunali, al tempo convertiti in affollati ospedali da campo.
Ventidue anni dopo Le quattro giornate, il regista ritorna su Napoli, quasi a volerne scrivere un secondo capitolo rispetto all’eroismo inconsapevole della Resistenza del 1943. Mi manda Picone (1983) racconta una città-matassa, nella quale uomo e natura congiurano a favore di antiche servitù, ad oggi concretizzatesi nella criminalità organizzata. Due film che svolgono in due tempi un’unica ricerca. In entrambi i casi Loy fa i conti con il rimosso della nostra storia; si potrebbe addirittura dire che egli riesca a cogliere ciò che siamo veramente. Se Le Quattro giornate esaltava una napoletanità straripante negli spazi aperti, Mi manda Picone abbandona la superficie, si inoltra tra budella marcescenti, in luoghi sconosciuti, oscuri ed incomprensibili. Si priva cioè della voce diurna e, con questa, di molte convenzioni ambientali e paesaggistiche. Rarissime, ad esempio, le panoramiche e gli scorci urbani: il film torna sempre nel sottosuolo. La vicenda coinvolge una popolare Lina Sastri, presunta vedova di Pasquale Picone, del quale scoprirà la doppia vita. Con lei, lo sfaccendato Giancarlo Giannini, un pover’uomo che vive di espedienti e cammina con due scarpe scompagnate. Picone si è finto per anni operaio in Italsider agli occhi di tutti per nascondere i suoi affari illegali che, dalle scommesse clandestine allo sfruttamento della prostituzione, lo avvicendano alla parte marcia e criminale della città. I due protagonisti si avventurano nei loschi affari del defunto, in una storia di dramma e humor nero, dove lo spazio è un groviglio di strade, volti, automobili, caos, mistero. Se ci viene regalato uno scorcio, è quello di una Piazza Plebiscito oberata di automobili in sosta selvaggia, parcheggiatori abusivi, confusione. Il film fu definito da molti una commedia, definizione che lo stesso regista non amava: “Mi manda Picone è una commedia per la presenza di un attore come Giannini, ma è nera, parla della camorra, del mistero, del dolore. Sono contrario alla definizione di commedia all’italiana”.
“Com’è stato lavorare a Napoli?”, gli chiesero un giorno. Ed egli spiegò: “Io ho fatto parecchi film a Napoli, perché Napoli è una città strana, affascinante, misteriosa, contraddittoria, non si può definire, non la si può racchiudere in rigidi schemi sociologici. È una città che si ama molto, anche odiandola, e i napoletani sono molto individualisti e molto casinari, ma hanno una cultura della comunicazione che altrove non c’è: si manifestano, parlano, si coinvolgono, fanno amicizie, sono pronti all’avventura, non hanno la cultura della produzione che c’è al Nord Italia. E sono affascinanti. È una città senza organizzazione sociale, una civitas incivilis, dove l’imprevisto è sempre previsto. Non si stupivano di nulla (durante la lavorazione dei suoi film, ndr): io bloccavo le strade, mettevo dei muri, arrivavano i carri armati tedeschi, sparavano cannonate e tutti: «Ah, bravo». Poi incominciavano ad applaudire e a fischiare, come a teatro: era uno spettacolo, inquadratura per inquadratura, e poi davano consigli: erano tutti sceneggiatori, registi…”
“Era necessario avere un rapporto individuale con ognuno di loro, non riuscivo a gestire contemporaneamente 500 comparse, dovevo avvicinarmi ad ognuno di loro: «Mi raccomando, è una cosa molto importante, mi raccomando, questo ruolo è…», e tutti allora si mobilitavano, perché è una questione di dignità personale. Gli operai napoletani non attaccano bulloni senza sapere a cosa serve. È un’altra cultura. Non puoi fare affidamento sui napoletani. In guerra non puoi farci affidamento perché in guerra il generale dice «Avanti, marsch!» «Dove? Che marsch? Ma dove dobbiamo andare? Per fare cosa?»”.
Le esperienze televisive degli anni ‘60 e ‘70 porteranno il regista a sperimentare nuove forme narrative, più vicine ai tempi e le modalità di fruizione del neo-mezzo. Dalla forma cinematografica del racconto, allo stile-lampo dei film ad episodi, legati tra loro da temi e motivi; egli vi si appassionò poiché in questo modo aveva la possibilità di mostrare una certa quantità di idee, racconti e ritratti. Tra questi, Made in Italy (1965) – al quale il regista era particolarmente affezionato – e Signore e Signori Buonanotte (1976), film collettivo satirico, nel quale l’episodio di Loy risulta senza dubbio il più toccante, drammatico e grottesco. Un piccolo capolavoro. A Napoli, un vescovo premia le famiglie numerose; un bambino, costretto a lavorare per mantenere i suoi otto fratelli, dopo essere stato premiato dall’autorità, ritorna nella sua misera casa e si suicida, gettandosi dal balcone. Il cono d’ombra in ogni storia è ciò che interessa a Nanni Loy. Risentono di queste esperienze narrative anche suoi ultimi film di argomento napoletano, Scugnizzi (1989) e Pacco, doppio pacco e contropaccotto (1993). Non particolarmente amato dalla critica, Scugnizzi tratta il tema dell’infanzia abbandonata a se stessa, tra povertà e malavita, attraverso uno spettacolo messo su dai ragazzi detenuti nel carcere minorile di Nisida. Ai momenti del musical messo in scena dai ragazzi si alternano le loro storie personali, i motivi che li hanno portati a delinquere e gli scorci di una società malata che li ha generati prima e buttati via poi. La beffa più evidente è che gli scugnizzi, figli dell’emarginazione e dell’indifferenza, si esibiscono davanti alla Napoli bene, quella che li tollera solo in quanto eccezione, rifiuto, deviazione dalla norma. Gli scugnizzi, che generalmente evocano una gioventù napoletana scanzonata e romanticamente vagabonda, qui vengono assunti come paradigma di un dramma sociale e antropologico, di fronte al quale gli elementi “sani” della collettività girano la faccia, si indignano per poi ritornare melliflui nei salotti e nelle stanze dei bottoni. Ancora una volta, Loy è sovversivo, antiretorico, vivido. Più disinvolto il tono di Pacco, doppio pacco e contropaccotto, film a episodi che illustra le molte varianti possibili per arrangiarsi e truffare il prossimo, sempre a Napoli, dove troppi motivi ci sono per aguzzare l’ingegno. Il pacco, ovvero la truffa ai danni del malcapitato di turno, corre e prolifera lungo tutto il perimetro della città, dai Quartieri Spagnoli alla Ferrovia, da Piazza del Gesù alla Galleria Umberto I, dal Palazzo dello Spagnolo al Centro Direzionale: l’imbroglio è dietro l’angolo, e con esso le sue macchiette, i protagonisti, il canovaccio dei tratti e dei siparietti. Tra gli episodi, oltre all’esemplare vicenda dei fratelli costruttori, truffati per ben tre volte sull’acquisto di costose macchine fotografiche, campeggia la tenera e grottesca vicenda del professore (un ottimo Alessandro Haber), per il quale il raggiro di uno studente sarà anche rito di passaggio per l’età adulta.
Nanni Loy ha saputo documentare e dipingere nello stesso tratto, raccontare il cono d’ombra, parlare una lingua sgradita perché troppo vicina al basso, allo sconveniente, al vero. Ha esaminato le tante facce della “fratellanza contro”, in una poetica in cui lo sdegno è equilibrato dal gusto del grottesco e lo scandalo è corretto dal paradosso.
Napoli è l’universo semantico ch’egli predilige per caratteristiche antropologiche e culturali. Per Loy-uomo essa è la capitale culturale della sua adolescenza sarda; per Loy-regista è “una città dove la cultura della produzione non ha vinto, e quindi sono poveri, però c’è la cultura della comunicazione, la cultura della fantasia, loro fanno teatro tutti i giorni nei loro vicoli, non è folklore, loro fanno teatro anche per stordirsi e dimenticare il dolore delle loro esistenza quotidiane. Quindi fare teatro a Napoli è normale, fare cinema è normale. C’è molto rispetto per il cinema, perché lavora per raccontare storie, e loro raccontano storie continuamente. Altrimenti come fanno a vivere in otto in un basso senza aria? Quando escono da lì cercano di sopportare il dolore del vissuto attraverso questa stranissima vitalità mentale che hanno”. Se una morale c’è, in tutta l’opera di Nanni Loy, essa è antistorica e sconveniente, soprattutto inattuale: la dignità personale dei suoi personaggi, contrapposta alla violenza fratricida del sociale.

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