Le scale sono simbolo eterno di movimento. Ma i simboli sono fatti per essere interpretati, cambiati, capovolti. E allora cosa succede se, su delle scale, ci si ferma?
Scale, scale, scale e ancora scale. Così, in breve, descriverei la mia infanzia. Ora che mi rotea davanti agli occhi la girandola dei ricordi, vedo affastellarsi immagini di rampe, gradini, corrimani e pianerottoli. Mi sembra di ricordare solo questo. Tutta la mia infanzia mi sembra ridursi a poche azioni: salire, scendere, accelerare il passo, fare i gradini a due a due, a tre a tre. Il me bambino mi si presenta alla memoria nelle vesti di uno ‘scalatore seriale’. Un atleta instancabile che affronta ogni gradino con entusiasmo, pieno di energie. Del resto è così. Il piacere degli ascensori è arrivato solo negli ultimi anni. Un gusto acquisito con l’età, come i broccoli. Inizialmente per imitazione, poi per convenienza. Ad un certo punto anch’io ho dovuto fare i conti con la stanchezza ribollente, certo, ma soprattutto con la fatica mentale di dover trovare una giustificazione al «non prendi l’ascensore?». «Sì certo, lo prendo… È comodo». E però, ancora oggi, ogni volta che schiaccio il ‘4’ nell’ascensore di casa, o il ‘3’ in quello dell’università, mi sento fedifrago. Mi si appollaia sulla spalla un corvaccio inquietante. Dice solo «hai tradito il patto col gradino». Poi sbatte le ali e torna da dove è venuto.
Da piccolo non mi domandavo perché preferissi le scale. Era così e basta. E allora non avevo nessuna risposta da contrapporre agli sguardi straniti degli ‘ascensoristi’. Ricordo che invidiavo chi poteva trincerarsi dietro l’aura magica della fobia. Ad un «ho paura degli ascensori, vado a piedi» non puoi opporti. Cosa puoi contestare? Lo accetti come accetti il colore dei capelli. «È fatto così, va bene». Ma io non avevo paura degli ascensori, era diverso, mi annoiavano. Mi provocava disagio quell’attesa surreale, quella costrizione all’immobilità. Così valeva per le scale mobili e così in generale per tutte quelle situazioni in cui mi si presentava il bivio: agire o farsi trasportare. Io sceglievo sempre la strada dell’azione. Era in questa opposizione tra energia e riposo, tra dinamismo e stasi che si realizzava per intero il mio orizzonte di scelta. Forse è per questo che ora mi sembra che per tutta l’infanzia non abbia fatto altro che salire e scendere rampe di scale. Era l’intero mio mondo perché era tutto ciò su cui avevo facoltà di scelta.
Ma perché sto parlando di tutto questo? Com’è che ora mi sto perdendo in questa inutile smania interpretativa? Beh, è piuttosto semplice. Mentre scrivo, sono seduto su un gradino nel bel mezzo di una rampa di scale, e mi sono appena reso conto che il mondo si è capovolto. Io, adesso, le scale le utilizzo come punto in cui fermarmi. Non le percorro più di fretta, sguizzando fuori da esse. Non le vedo più come luogo dove manifestare la mia energia. Spesso e volentieri, mi ci fermo. Mi godo la possibilità di non scegliere. La libertà di dire «Non voglio né scendere né salire». In particolare, mi godo una specifica rampa di scale, quella dove siedo ora. Si trova in una traversa di via Crispi ed è il set della scena di Scusate il ritardo nella quale Troisi prova a consolare uno sconfortato Lello Arena sotto una pioggia scrosciante. Oltre allo status di luogo di culto, ciò che mi piace di queste scale è che si trovano a metà strada tra casa mia e il centro. Questa rampa mi permette di tirare il fiato quando, di notte, attraverso la città e mi perdo inevitabilmente nelle fantasticherie e nei dubbi. Questi gradini sono sempre qui, e quando il peso delle scelte pare farsi più intenso, sono la migliore compagnia che possa chiedere.
È dunque a queste cose che penso adesso. Al cambiamento, alle scelte e alla necessità di tirare il fiato. «Le scale servono a essere percorse» penso. «Le scale sono un non luogo» dico. Ed è questo che ogni tanto mi serve, un non luogo dove tirare il fiato.
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