Napoli, talmente bella da stregare Goethe, Leopardi e Stendhal

Napoli Castel dell’Ovo dalla spiaggia- A. Pitloo
Napoli Castel dell’Ovo dalla spiaggia- A. Pitloo

La letteratura italiana e mondiale, così come l’arte, è ricca di riferimenti, descrizioni, dediche ed elogi alla nostra città. Tracce del segno indelebile che Napoli ha lasciato nel cuore degli artisti che vi hanno soggiornato, anche se per pochissimo tempo. Pochissimo è infatti il tempo che serve a coglierne la straordinaria unicità, come suggeriscono le parole di J. Wolfgang von Goethe, contenute nel diario ove minuziosamente raccontò il viaggio in Italia del 1787.

La Napoli di Goethe

«Si dica, si narri, si dipinga tutto quanto si vorrà, si troverà qui sempre di più». Lo scrive il poeta tedesco che della Campania visita e descrive ogni località. Dal Vesuvio a Pozzuoli, da via Toledo a Capodimonte, da Pompei alle isole. Preoccupato di non riuscire a rendere con le sole parole «tutte queste bellezze meravigliose di natura». Goethe è accompagnato nelle sue escursioni e passeggiate dal pittore tedesco J. Tischbein e, durante il suo soggiorno, non manca di osservare il popolo napoletano.

«Tutti stanno sulla strada a godere il sole finché questo splende. I Napoletani ritengono possedere il paradiso» questa la sua prima osservazione cui ne seguiranno tante altre sul carattere ingegnoso e divertente di un popolo che ama conservarsi così, ancora oggi. Goethe descrive i napoletani come uomini capaci di soffrire allegramente, di godere del momento senza preoccuparsi troppo di ciò che li attende. Piuttosto «accorti ed industriosi, non già per diventare ricchi, ma bensì per potere vivere senza pensieri».

Dalle lettere del poeta Goethe emerge anche quel misto di religiosità e superstizione che, a quanto pare, da sempre caratterizza i napoletani. Lo scrittore infatti annota che «quando la voragine infernale vicina comincia romoreggiare cupamente» i napoletani ricorrono al sangue di S. Gennaro «per difendersi contro la morte, e contro il diavolo».

Di Stendhal

Il riferimento a San Gennaro, questa volta osservato con un briciolo di polemicità piuttosto che di ammirazione, è contenuto anche negli scritti di Stendhal. Lo crittore francese attorno al 1817 fece visita a Bologna, Roma e, chiaramente, Napoli. Pur ammettendo di essere estasiato dalla bellezza della città partenopea, Stendhal resta tristemente deluso dal grosso divario tra la nobiltà e i ceti meno abbienti. Soprattutto dall’indifferenza del popolo rispetto alle questioni politiche e ad ogni impulso rivoluzionario. Stendhal scrive espressamente che «il popolino napoletano, corrotto dal clima troppo mite, non si batte, dice: se ho ragione io, San Gennaro non mancherà d’uccidere tutti i nemici».

Insomma, Stendhal finisce con l’interpretare la grande fiducia nell’opera divina, tuttora viva negli animi dei napoletani, con un completo disinteresse per le vicende di attualità. Un comportamento remissivo che l’autore fatica a comprendere e al quale non riesce a rassegnarsi. In realtà ben s’inquadra nella logica di un popolo che non smette di sperare che tutto, in fin dei conti, prenderà la piega giusta, seguendo le trame di una giustizia divina che possa compensare le carenze di quella terrena. Eppure, nonostante ciò, Stendhal così saluta la città al termine del suo viaggio: «Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo».

Di Leopardi

Mosso invece dalla necessità di un’aria più salubre che potesse migliorare le proprie condizioni di salute, Giacomo Leopardi giunse a Napoli nel 1833. Vi rimase fino alla morte, nel 1837. Risale appunto agli ultimi anni della sua vita la Ginestra, poesia scritta in una villa alle pendici del Vesuvio. È proprio la vista del vulcano dormiente, così imponente da incutere timore, ad ispirarlo nella stesura del componimento che rappresenta senza dubbio il testamento spirituale del poeta. Convinto dell’avversione della natura nei confronti dell’uomo, Leopardi nella Ginestra invita tutti i popoli ad unirsi e ed essere solidali per resistere al triste destino comune.

Il poeta invita gli uomini a comportarsi proprio come l’umile ginestra che egli vedeva crescere sul terreno arido del Vesuvio e in condizioni avverse, esposta al rischio di un’ improvvisa colata lavica, eppure forte e resistente. Allo stesso modo tutti gli uomini, secondo Leopardi, dovrebbero umilmente accettare il proprio destino senza per questo demordere, ma piuttosto confortarsi a vicenda per superare con il reciproco amore gli ostacoli della vita.

Dunque è proprio a Napoli, città che fungeva da antidoto ai suoi malanni, che Leopardi matura questa riflessione profonda e fiduciosa, lasciando ai fratelli uomini di ogni tempo un messaggio carico di speranza, un invito alla fraternità e ai sentimenti più semplici e primordiali dell’essere umano. Se da un lato Napoli impresse un segno evidente nell’ideologia di Leopardi, dall’altro sono allo stesso modo evidenti le testimonianze della sua permanenza. Oggi infatti la nostra città ospita la tomba del poeta e custodisce gelosamente, nella Biblioteca Nazionale, una raccolta di autografi lasciati da Leopardi all’amico Antonio Ranieri.  Vi troviamo anche lo Zibaldone, diario personale ricco di annotazioni, appunti e lettere. Raccontano la vita e l’evolversi del pensiero di un eccelso poeta che fa parte della fortunata schiera di intellettuali accolti e cullati dalle acque del nostro Golfo.

 

Foto di copertina: Castel dell’Ovo dalla spiaggia – A. Pitloo

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