Nino D’Angelo, cronologicamente prima di Massimo Troisi, è stato la maschera del guaglione. ‘O guaglione sperzo dint’ a stu munno.
Gracile, smunto, con un fosso tra gli zigomi e la mascella, Nino D’Angelo, ai tempi dei “musicarelli” degli anni ’80, ha fornito sempre l’impressione del ragazzo “tutto cuore e passione” e pochi muscoli, quasi un “ultimo figlio” della Napoli affamata del secondo tragico dopoguerra.
Nino D’Angelo: ‘o napulitano se fa sicco, ma nun more.
Napoli, quando Nino D’Angelo, il “caschetto biondo”, iniziò a interpretare i suoi primi film, aveva da poco subìto in pieno l’ultima, ritardataria, bomba satura di esplosivo: il terremoto dell’Ottanta. Sì, proprio come un potentissimo ordigno che si era dimenticato di deflagrare nel 1943. Fu proprio dall’‘81 in poi che si fece strada il “mito” cinematografico di questo guaglione sicco sicco, emaciato ma appassionato, sanguigno, appucundruto p’’ammore. E i ragazzi e le ragazze di Napoli, dei quartieri popolari, dei vicoli, dei bassi, erano proprio così. E molti, magari, lo sono ancora.
Nino, da sùbito un “mito popolare”
Qualche settimana fa, in un negozio del centro storico, vidi un tamburello (quello che si trasforma in “tammorra” nel linguaggio della tarantella) con l’“effigie” di Nino D’Angelo, accanto a quelli con i volti di Totò, di Maradona, di Edoardo, di Pino Daniele. Napoli ha sempre avuto – e sempre avrà – un bisogno “disperato” di icone, nei cui occhi umani riconoscere il proprio Golfo, i propri paradossi, le proprie tragedie.
Fissando la “tammorra” pensai che Nino era già nel pantheon dei significati di questa città. Non è necessario morire, qui, per abitare il cielo. E’ necessario che in tanti, nel brulicare di questo popolo, possano indicare un volto e dire, con un mezzo sorriso: “quello sono io”.
‘O guaglione
Sì, probabilmente Nino entrò nelle viscere di Napoli come figlio di tutte le madri. Massimo Troisi, che appariva sui grandi schermi proprio allora, con capolavori quali “Ricomincio da tre” o “Scusate il ritardo”, sarebbe divenuto una maschera come Charlie Chaplin o Buster Keaton, un irresistibile volto prestato alla fragilità umana, all’autoironia che “salva il mondo”. Immenso, Massimo.
Nino, però, col suo volto scolpito come pietra cava (già da ragazzino) appariva come quel figlio denutrito di cibo e di cultura che davvero poteva essere uscito dall’utero di tutte le madri di questa città, dall’infinita formicolante dignità dei vicoli, dei bassi, dei fondaci. Poteva essere ‘o figlio ‘e piscatore, ‘o guaglione ‘e mmiez’ ‘a via.
Le storie di “‘Nu jeans e ‘na maglietta”, “La discoteca”, “Pop corn e patatine”, titoli prodigiosamente semplici, quasi intendessero essere proiettati solo sul muro di una stradina di Napoli, erano le storie degli adolescenti napoletani affamati d’amore.
Film, canzoni, repertorio “classico”
Napoli è tragicamente “divisa in due”, ferita e sanguinante, un taglio lungo quanto Spaccanapoli. Da una parte l’eccellenza della cultura e della scienza. Dall’altra parte migliaia di ragazzi che hanno solo l’amore. Nino ha interpretato “questa” parte di Napoli. Con la voce, con i gesti, con le lacrime.
Tra l’altro quella che abbiamo chiamato “la parte di Napoli” che possiede solo amore è, alla fine, la Napoli delle canzoni che ci rappresentano nel mondo. Ultimamente, a tal riguardo, mi è capitato di ascoltare un’interpretazione di Nino D’Angelo di “Piscatore ‘e Pusilleco” (Ernesto Tagliaferri e Ernesto Murolo, 1925) e non ho potuto fare a meno di commuovermi e di apprezzare l’altissimo livello interpretativo di Nino, nel momento in cui deve “confrontarsi” con la canzone “classica” napoletana. Quest’ultima ha la particolarità di essere un palpito del popolo cantato dai colti. Sotto questo aspetto, Napoli è una. E con un solo cuore ama Nino.
Gli anni della maturità
Nino D’Angelo, ‘o guaglione perzo p’ ‘ammore, “da grande” ha conquistato il posto che, per quanto ha dato a Napoli e alla sua tradizione popolare canora e attoriale, si meritava. Dal 2006 al 2010 Nino è stato direttore artistico del Teatro Trianon Viviani, nominato direttamente dall’allora sindaco di Napoli Antonio Bassolino. Si avverava, probabilmente, un sogno che il ragazzo in jeans e maglietta neanche si sognava di poter realizzare.
Nel 2008 Nino pubblicava l’album D’Angelo canta Bruni, in cui il nostro “scugnizzo” si gettava in un’altra impresa nient’affatto facile. Entrare nel novero degli interpreti del meraviglioso repertorio della canzone classica napoletana, quello che va dagli ultimi anni del XIX secolo alla metà del ‘900, non è affatto semplice. C’è bisogno di voce, sì, ma anche di passione, capacità di calarsi in universi emotivi e poetici complicati e profondi. In una parola, c’è bisogno di cultura. E Nino questa sfida, nonostante tutto, l’ha vinta.
Anche i brani che Nino D’Angelo porta all’attenzione del grande pubblico sono, come è naturale, mutati negli anni, come stile e come contenuti. Ma questo, si badi bene, non vuol dire mai dimenticare o “sotterrare” un percorso poetico che si è intensamente vissuto da giovanissimi.
Nino è cresciuto, ma sarà sempre ‘o caschetto nnammurato. Anche ora che lo “accostiamo” a brani come l’autobiografico Senza giacca e cravatta e Jamm’ jà, pezzo sulla questione meridionale, entrambi portati a Sanremo. Anche quello che di fatto è l’inno del Napoli, specchio del Nino anni ’80, chi può dimenticarlo? Solo ad ascoltarlo, viene ancora ‘o ffriddo ncuollo. Perché Nino D’Angelo è il cantante delle passioni viscerali.