Le “intrepide” religiose a caccia di Masetto, immerse nella versione pasoliniana del Decameron in un paesaggio napoletano, ci hanno fatto forse abituare all’idea di una spregiudicata leggerezza. Eppure, nella capitale del Viceregno non mancavano esempi di severità clericale estrema, con risultati non meno comici. In tal senso, il più curioso personaggio consegnatoci dalla tradizione è Giovan Camillo Cacace, ottimato napoletano che mise assieme un patrimonio di 500.000 scudi (svariati milioni di euro) con una carriera legale che, dagli anni ’30, lo portò al grado di Reggente di Cancelleria, massimo tribunale del tempo.
Uomo ambiguo e goffo, fu definito sia di mos antiquus, moralmente intransigente, sia dal D’Andrea, “uomo zotico e di genio tetro e niente accomodato per la società civile”. Nei fatti visse costantemente scapolo e vergine, e così propenso al celibato che dotava riccamente tutti i suoi parenti che volessero intraprendere la carriera ecclesiastica. I suoi biografi parlano di lui come “gran custode della modestia del corpo, in modo che, fuor dalle braccia e de’ piedi, non vi fu persona che poteva dire d’averne veduto parte che vien coverta dalla veste”. Coronando una tale vita con il contagio della peste, nel 1656 risolse di testare in favore di una fondazione monastica, che fu Santa Maria della Provvidenza, e precisamente il cosiddetto Chiostro dei Miracoli, per la quale pare addirittura preferisse mangiare in piatti di terra, così da non consumare quelli d’argento, destinati alle religiose. Tutt’altro che un paradiso però, entrare nell’ordine. Le pratiche d’ammissione cominciavano dalla consegna di un “curriculum vitae” da parte di un familiare della candidata alla guardiana della fondazione, in cui si certificava l’impossibilità di autofinanziarsi l’entrata in altro convento o monastero.
A quel punto i curatori visitavano la giovane per osservare che fosse sana e senza difetti (il che voleva dire anche attestarne la verginità), né che fosse zoppa o cieca, e che sapesse leggere – quando si dice “politicamente corretto”. Non bastando, ci si informava segretamente dal vicinato se avesse sempre avuto buona condotta, e parimenti la famiglia, facendosi dichiarare le professioni dei parenti tutti. Poi una fase formale, con la richiesta delle “fedi”, certificati di nascita da legittimo matrimonio e di battesimo; un’altra compilata dal caporione locale ed altre dal vicinato, che garantissero e giurassero formalmente la squisitezza della candidata. Se nobile, le fedi erano compilate da cinque o sei patrizi del locale seggio. Messo assieme il fascicolo, ciascuno dei curatori faceva il suo giudizio scritto e sigillato, da inviare alla guardiana, che poteva opporre diritto di veto. In caso di buona riuscita, l’ammissione era rimessa all’arcivescovo di Napoli. Infine, la candidata veniva convocata assieme alle altre dalla guardiana, e ispezionata per l’ammissione definitiva.
Se la maniacalità dell’iter lasciava perplessi gli stessi contemporanei, ci si poteva almeno compiacere che la selezione fosse indirizzata unicamente a giovani di piccola estrazione, dando loro una possibilità di carriera aperta, e puntando solo ai loro meriti privati, senza che vi fosse – è proprio il caso – santo a cui votarsi.