’O quatto ’e maggio. Quando a Napoli si poteva traslocare in un solo giorno dell’anno

’O Quinnecediciotto. ’O Quarantotto. ’Na Casamicciola. E poi, ’O quatto ’e maggio. Tra anni e luoghi divenuti celebri per gli eventi catastrofici, ’o quatto ’e maggio è la formula napoletana per una rivoluzione fatta in casa, prêt-à-porter, che compostamente non esce dai limiti cittadini. Passata col tempo ad indicare un ingestibile caos per le vie della città, e, traslandolo, per l’ammuina di ogni ordine e grado, ha origine dal più rigoroso ordine.

In principio era il verbo – se l’accostamento non riesce troppo profano – e l’aveva deciso il viceré di Napoli don Pedro Fernando de Castro conte di Lemos, nel 1611. In ciò, aveva perfezionato il provvedimento di un suo precedente collega che fissava la data unica per i traslochi cittadini dal 1° al 4 del mese di maggio. Ma perché si poteva traslocare in un giorno solo? La Napoli del Seicento, non proprio ordinatissima, di certo non asfaltata e sprovvista di moderne infrastrutture, con strade insufficienti al regolare transito, per lo più strette e con spazi invece tanto larghi quanto privati (ribadisco: la Napoli del Seicento), non poteva permettersi in piena sicurezza il transito di una o più famiglie che, mettiamo nella stessa strada, decidessero di traslocare a distanza ravvicinata.

Come utilizzare i convogli? Come mettere d’accordo le consorterie di carrettieri e facchini? La logistica avrebbe ammazzato qualcuno. Gestire il flusso invece in ordine avrebbe forse portato miglioramento. Una pia illusione, nonostante il testo della prammatica XV recitasse chiaramente, con rispetto anche delle feste comandate: «Che la mutazione delle case a pigione […] si fosse fatta a’ quattro del medesimo mese [maggio], et essendo festa di precetto si facesse il giorno seguente». Ma il Conte di Lemos era persona di buona volontà e vero uomo d’ordine. Tra i suoi provvedimenti, l’obbligo di dichiarazione fiscale degli schiavi; l’abolizione delle bische e della prostituzione in strada; la regolamentazione severa del porto d’armi e quella della vendita delle cariche pubbliche, oltre al tassativo bisogno del conseguimento del dottorato per accedere ai massimi gradi dell’amministrazione. Aggiungiamoci anche l’inaugurazione del Palazzo degli Studi (attuale sede del Museo Archeologico Nazionale) come Università di Napoli, partendo da casse comunali con due milioni di ducati di debito, e ne verrà fuori un quadro quasi immacolato.

Quasi, perché a provocarlo reagiva duramente. Come quando comandò la condanna a morte di venticinque ladri, che prima di arrivare alla forca passarono processionalmente a dorso di somari, con mitrie di carta in testa e appesi al collo gli attrezzi da scasso. «Ma la partenza del Conte, che tolse alla città ed al Regno la speranza di riscuoter dalla sua mano beneficj maggiori, toglie anco a noi la materia di continuare il discorso», scrive nel Seicento il biografo Domenico Antonio Parrino. Il simbolo di quell’ordine – ’o quatto ’e maggio – divenne il simbolo di una sregolata e caotica gestione della cosa pubblica per il mal costume dei privati. Però è bene ricordare quella data come segno di qualcosa di possibile, che va oltre tutte le seduzioni ciniche di chi è abituato all’impossibilità del cambiamento (e ci guadagna), e che fissa bene in mente la lezione: il trasloco, metaforicamente inteso per ogni innovazione, è possibile quando una legge giusta non ha timore di farsi rispettare con la forza. E la forza più grande sta nel cuore dei cittadini che la amano, ancor prima che nella penna del legislatore.

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