Opus Alchymicum: l’uovo, la sirena e la conoscenza in Lolita Timofeeva

Ogni grande artista che voglia dar prova di sé dovrebbe partire dalla conoscenza del passato e dalla formazione dello studio. Difficilmente, altrimenti, si riesce ad entrare in contatto col pubblico più vasto, che cerca sempre, nelle opere di una mostra, un ponte con la propria esistenza. Se l’artista si pone al di sopra di queste premesse, ed impone un affastellarsi di congegni con l’alibi della libertà di ricerca nell’arte, allora avrà non spettatori ma passanti indifferenti come nelle scansie di un supermercato.

Lolita Timofeeva è un’artista troppo consapevole, matura e sincera per cadere in questa (frequente) trappola di mito e mercato dell’arte contemporanea, e porta a Napoli la sua Opus Alchymicum, che è l’intonazione partenopea di un personale itinerario d’arte. In Italia fin dal 1991, la pittrice ha maturato uno sguardo profondo sui luoghi e sugli individui, proponendo un approccio che indaga vari temi con la finezza di suggerire domande ed avanzare risposte, senza mai apertamente spiegare.

Lo scopo è creare dibattito. La mostra è infatti incentrata su di un proposito di conoscenza alchemica, esoterica, lontana da sfumature ‘stregonesche’, di cui eredita il fascino, ma certo ermetica, fatta per chi voglia misurarvisi con animo ed intelletto. Il suo è un repertorio prevalentemente figurativo, che risparmia il terribile imbarazzo di un vuoto o di una chiazza astratta – che della ricerca sono piuttosto un pretestuoso punto fermo, che non un inizio o una tappa.

Il primo piano è dedicato alle opere prime della Timofeeva, tavole figurative dal sapore simbolista e dalla chiara abilità tecnica in disegno e colorito. Le opere si tendono l’un l’altra in una riflessione che ha per oggetto la conoscenza alchemica, raffigurata prevalentemente nell’oggetto “donna”, quale vettore di scienza attraverso i suoi ministri, raffigurati come uomini. Precisamente come sacerdoti cattolici, a causa del loro fascino filosofico antico esercitato sulla pittrice.

A fianco a questi soggetti, dal velato erotismo mistico e permeati da un’apparente serenità che genera invece inquietudine, appaiono altre opere che recuperano simbologie tradizionali del sapere alchemico. Spiccatamente partenopea è la sequenza di tavole dedicate al “ciclo di vita” di una sirena, nella sua tradizione mitologica. Ovvero come gli esordi omerici la figurarono donna-uccello, e come, invece, l’immaginario collettivo l’ha tradotta in donna-pesce.

Il tema è solo un pretesto, però, perché la Timofeeva, pur attentissima all’iconografia, se ne serve per immaginare in questo mutamento quello di una donna qualunque, declinando in chiave esistenziale la figurazione, con l’idea ultima di una forma tonda dell’eterno ciclo. Ancora a proposito di forme, un piccolo nucleo di installazioni in sabbia e in vetro, oltre che di cartone, lavora all’essenzialità della trasmissione di conoscenza, interpretando figurativamente gli archetipi matematico-geometrici alla base del creato.

Le forme prime, i rapporti perfetti, la sezione aurea. Tutto indica il raggiungimento di un’essenzialità gnoseologica, che è anche il bisogno di crescita artistica dell’artista, tendente alla semplificazione estrema del linguaggio. Linguaggio che tocca i suoi vertici in un altro gruppo di opere, vere e proprie poesie ermetiche in figure, realizzate con una tecnica che sfrutta i pigmenti del caffè, in cui la pittrice, con accenti vignettistici, elabora soggetti di uomini ed animali dalle attitudini indefinite.

Anche qui, la volontà figurativa essenziale non si perde mai nell’elucubrazione astratta, incomunicabile, che, anzi, si lascia spesso affascinare da ritorni iconografici antichi e dal vigoroso disegno, come in Solve e coagula e Sentore di leoni. La Timofeeva insiste molto sui “capitoli partecipati” della sua arte, sfruttando le intermittenze del visitatore per le sue opere. Frutto di poesie collettive sono, ad esempio, le didascalie liriche affiancate ad alcune opere.

Tema analogo è nel richiamo alla conoscenza di sé, nell’accompagnare il visitatore in un camerino con uno specchio, ed invitarlo sinceramente ad appuntare quanto vede. La schietta vocazione conoscitiva e l’assorbimento reale dello spettatore nell’arte della Timofeeva producono una linfa chiaramente riconoscibile, a scanso delle frequenti ‘velleità’ tipiche della contemporaneità, che troppo sanno di trovata e poco di arte. Segno tangibile di questa produzione sono i soggetti che rielaborano il tema – ancora napoletano – dell’uovo, abbecedario del linguaggio alchemico.

Lì confluiscono i versi raccolti da più visitatori e rielaborati dall’artista, che rimonta all’antico intento sacro della poesia: la teosofia, conoscenza di Dio (e del mondo) ancor prima della nascita e della maturità della scienza. Non mancano poi le installazioni d’ambiente, come E quando raggiungerò il punto più alto…, con la scala sospesa su un’ascesi potenzialmente infinita, percorsa da passi ricavati da calzari di carta. Nemmeno manca la video-art, con un filmato che introduce il punto di vista femminile in un ambiente tipicamente maschile, come una fonderia.

I cataloghi, a cura di Giorgio Angisola e Arturo Schwarz, ospitano testi critici concisi e permeanti. Opus Alchymicum, che ha i suoi punti forti nelle tavole a colori e in quelle dai toni di caffè, cade nell’ambito del centenario dell’indipendenza lettone, nazionalità della pittrice, ed è un’affascinante invito ad uno dei rari (purtroppo) spiragli colti e spirituali di quella contemporaneità artistica che già preme per passare il vaglio del tempo.

 

Opus Alchymicum
di Lolita Timofeeva
Napoli, Castel dell’Ovo
27 ottobre – 2 dicembre
Ingresso gratuito

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