Tra le migliaia di cose da vedere a Napoli, per le quali non basterebbe una vita, un unicum indispensabile è il Battistero di San Giovanni in Fonte del Duomo. Lasciato talvolta in disparte nel percorso dei visitatori — giustamente ammaliati dai tesori che spuntano in ogni dove — e non sempre adeguatamente menzionato dalle più antiche e referenziate guide, il Battistero è quasi un luogo a parte, in cui addentrarsi dalla Cappella di Santa Restituta, che un tempo era da considerarsi un duomo nel Duomo.

Capiamoci meglio. Nei primi secoli del cristianesimo, il battistero rappresentava un edificio a parte, perché i catecumeni, coloro che pur adulti non avevano ancora il battesimo, non erano ammessi nella chiesa — che per lo più era detta basilica, per la sua forma.

Di conseguenza, il battesimo era amministrato fuori della chiesa, cosicché il battistero fosse luogo e simbolo preliminare ad essa. Ancora così, ad esempio, nel famoso Battistero di Firenze, decisamente il più famoso al mondo. E così Napoli, prima di Firenze. Dotato non di un lavabo, ma di una vera e propria vasca in pietra — dall’antico uso di immergere tutta la persona —, e che dà il nome al battistero stesso, in fonte, l’edificio è in piedi dal IV secolo, testimone autentico dell’Impero che diventa cristianità romana. E, non a caso, adiacente alla Santa Restituta un tempo detta Stefania, ovvero il primo duomo napoletano dell’Alto Medioevo, poi intersecato in epoca angioina dall’attuale lunga navata gotica.

E il meglio deve ancora venire. L’eccezionalità dell’opera però, oltre alla sua antichità, è nel suo pregio artistico impagabile, insuperabile e non replicabile: i suoi mosaici. Differentemente da un’Europa moderna fatta dai tanto riveriti affreschi di pittura, il mosaico era considerata l’arte decorativa per eccellenza della romanità. La più lussuosa. La più ricca. La più esigente. E, siccome fatta in ordine di centinaia di migliaia di tessere vitree, e non di pittura, doveva sfidare i secoli. Occorreva infatti una squadra di artisti specializzati per realizzare un mosaico, partendo da un maestro che realizzava solo i disegni, fino all’ultimo che si occupava di applicare le tessere. Ora, lasciando perdere il valore intrinseco dei materiali più pregiati, l’oro e il lapislazzulo (per quel blu particolarmente vivo), che proviene da una pieta afgana preziosa quanto e più dell’oro, la decorazione è ciò che più stupisce.

Siamo praticamente nella cerniera tra la grande decorazione naturalistica romana, fatta di effetti speciali e virtuosismi tecnici, e l’avvento del simbolo cristiano che vuol farsi figura. I soggetti raffigurati nei quattro angoli sono: la Traditio legis; La Samaritana e le nozze di Cana; La pesca miracolosa o Pietro che cammina sulle acque; Le pie donne al sepolcro. Ovvero, storie dal Nuovo Testamento, al cui vertice simbolico c’è la scena della Traditio legis, la consegna della legge da Cristo agli Apostoli, e il loro mandato a formare la Chiesa. E, se da una parte c’è la legittimazione del potere divino, dall’altra quello temporale. Ben al centro. In vista. È il crismon di Costantino, ottenuto dalle lettere greche X e P incrociate, ed accompagnate da alfa e omega, ovvero il principio e la fine di tutte le cose in Dio.

E, per dividere ogni riquadro, fasce con decorazioni a motivi floreali, vegetali ed animali ancor più raffinate e incantevoli di quelle pompeiane, in pittura. Si dice che i pittori dell’antichità fossero così bravi a realizzare l’uva che gli uccellini vi s’ingannassero andandovi a beccare gli acini: qui, in questo antro mezzo nascosto del Domo, avrebbero beccato l’eternità della bellezza e della storia di Napoli.
