Prodotti con latte di razze ovine pascolate all’aria aperta, i pecorini d’Irpinia sono una delle eccellenze di una regione geografica che riunisce paesaggi irripetibili, solcati da imprevedibili corsi d’acqua, e segnati da storie e tradizioni che sconfinano nel mito.
La pastorizia, in Irpinia, è una delle attività antropiche che risalgono a tempi immemorabili, forse proprio all’epoca neolitica, peraltro attestata in diversi luoghi del territorio, quando l’uomo divenne stanziale, iniziò ad allevare greggi e di conseguenza apprese, dapprima solo per intuito, l’arte della caseificazione, e l’affinò poi con perizia, tramandandone i segreti attraverso le generazioni.
E’ un mestiere, quello del pastore, che non si può svolgere senza una passione – per la terra – e un amore – per le bestie che si allevano – talmente grandi, da scegliere di essere liberi di affermare la propria identità, piuttosto che abbandonare le personali profonde radici per inseguire il miraggio di un benessere massificato.
E’ quanto affermano concordemente i pastori e caseificatori delle tre aree produttrici dei tre pecorini di eccellenza della provincia di Avellino, da Bagnoli Irpino, a sud del capoluogo, a Rocca San Felice, al centro, e fino a Casalbore, su a nord. Bagnoli Irpino lega il suo nome al Pecorino Bagnolese, cosiddetto perché prodotto con il latte dell’omonima razza ovina, oggi considerata razza in via di estinzione e perciò oggetto di programmi di rilancio e valorizzazione.
Diffusa nella zona dei Monti Picentini, e dunque in tutta la provincia di Avellino, in quella di Salerno e di Benevento, oltre l’altopiano del Laceno, su cui pascola liberamente, la pecora bagnolese è stata intelligentemente recuperata grazie all’impegno di allevatori lungimiranti, che l’hanno salvata dall’estinzione, minacciata dall’affermarsi di altre razze più produttive, quali la Comisana.
La pecora bagnolese viene detta anche “malvizza”, che nel dialetto locale vuol dire “tordo”, per le macchie scure presenti sul vello, simili al piumaggio dell’uccello. Essa viene considerata razza ovina autoctona a diffusione limitata, proveniente anche da incroci con la Barbaresca, di cui ricorda i tratti somatici. Si adatta bene alle condizioni ambientali difficili e fornisce sia carne che latte di qualità. Gli agnelli, allevati con latte materno, hanno una carne morbida e delicata e il latte delle pecore, ricco di proteine nobili grazie al pascolo naturale, fornisce un “casu ‘r pecora” molto richiesto sul mercato, sia pure di nicchia.
Il latte di due mungiture successive, solitamente una serale e una mattutina, viene lavorato direttamente nelle piccole fattorie di allevamento, da casari che hanno imparato l’arte dai genitori e che, pur adeguandosi alle nuove norme igieniche, conservano la ritualità dei gesti e spesso ancora gli antichi strumenti in legno, che aggiungono pregio al latte, modificandone in maniera peculiare la flora batterica.
Riscaldato a 40°, il latte viene poi cagliato con caglio naturale di agnello e, raggiunta la giusta consistenza, la massa viene rotta con lo spino, un attrezzo la cui forma ricorda l’antico ramo di biancospino da cui mutua il nome. Si elimina poi il siero e la cagliata si deposita nelle fuscelle o fiscelle, oggi in plastica, una volta fatte di castagno o di altre essenze di legno che contribuivano a conferire al formaggio aromi particolari. Asciugato, dopo almeno 12 ore, il formaggio viene salato due volte e rivoltato frequentemente durante la stagionatura, che va dai trenta ai novanta giorni.
Ottimo fresco, in accompagnamento ai piatti della cucina locale, fra cui il delizioso tartufo, è apprezzato anche come formaggio da grattugia, quando la prolungata stagionatura lo rende gradevolmente piccante.
Non ad una pecora in particolare, ma a un territorio e ai suoi miti è invece legato il formaggio Carmasciano o di Carmasciano, dal nome di un’antica contrada di Rocca San Felice, che si vuole sia stata possesso di un soldato Carmasius o Camarsius, un veterano dell’esercito romano che avrebbe ricevuto il possesso del terreno al tempo delle guerre sannitiche. Compreso fra Rocca San Felice e Guardia Lombardi, questo pezzo di terra racchiuso fra le Valli dell’Ufita, d’Ansanto e dell’Ofanto e l’altopiano del Formicoso condivide la produzione dell’omonimo, squisito pecorino, con Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi, Morra de Sanctis e Frigento. Segnati dal fenomeno dell’incastellamento, i comuni sono situati poco lontano dalla Mefite, ricordata da Virgilio nel VII libro dell’Eneide come uno degli ingressi degli Inferi.
In effetti, al visitatore che si rechi, attratto dalle leggende e dalla storia dei luoghi, alla Mefite o Mofeta, appare un piccolo laghetto, di circa 40 metri di perimetro per due di profondità, che descrive un paesaggio spettrale, frutto di un fenomeno paravulcanico, con grigie acque sulfuree che ribollono per la presenza di gas nel sottosuolo, lanciando miasmi talmente forti da procurare malore e fino la morte agli incauti che vi si avvicinano troppo, trascurando di mettersi sopra vento.
Poco lontano, un ruscello scorre fra le rocce e si inabissa nella Valle d’Ansanto, che ospitò un santuario all’aperto dedicato a Giunone Mefite, risalente al IV sec.a.C., i cui preziosi reperti sono conservati nel Museo Archeologico di Avellino. Qui, dove hanno inizio gli itinerari dell’Alta Irpinia fra arte, archeologia, paesaggi e oasi naturalistiche, pascolano nelle valli e soprattutto nella zona verso Carmasciano razze ovine come la Gentile di Puglia e la Laticauda.
Il pascolo risente delle esalazioni della Mefite, e il latte delle pecore che vi si alimentano presenta aromi insoliti, che rendono il Carmasciano il più particolare dei tre pecorini Irpini, ancorché il meno facile da trovare, data l’esiguità del numero degli ovini di antica razza e dei pastori che ancora conoscono e praticano le regole della caseificazione.
Si è discusso per anni se gli effluvi mefitici condizionassero o meno il sapore e il profumo del Carmasciano, ma oggi è certo che il caratteristico colore giallo è dovuto alla presenza, nelle erbe del pascolo, di acidi grassi insaturi, la cui ossidazione determina la formazione di sostanze che ne arricchiscono l’aroma. Il betacarotene influisce non solo sul colore, ma è anche un potente antiossidante che, insieme ai composti solforati presenti nelle erbe del pascolo, incide sulla qualità del latte e del formaggio.
Il Carmasciano, la cui lavorazione non differisce molto da quella del Bagnolese, ha una crosta rigata di colore ambrato tendente al marrone, che racchiude una pasta compatta morbida, con rare occhiature.
Stagionato, il Carmasciano si abbina bene all’Aglianico e fresco invece richiede il Fiano, vino di punta dell’Irpinia.
Conosciuto da tempo immemorabile, si racconta fosse il formaggio preferito dei signori di Rocca San Felice.
Anticamente i pastori sperimentarono una primitiva forma di associazionismo, portando a turno il latte prodotto dalle proprie pecore ad un associato designato come caseificatore, che provvedeva ad unire il latte delle diverse greggi, misurando la quantità di ciascuno con un attrezzo di legno detto Catarina, provvisto di tacche. Proprio questo attrezzo, che nella zona di Rocca San Felice alcuni casari ancora conservano e utilizzano, dà il nome ad un concorso provinciale dei formaggi a latte crudo, la Catarina d’Oro, una gara di abilità fra i caseificatori dell’Irpinia.
Ancora ad una razza ovina, la Laticauda, è legata la produzione del terzo pecorino irpino, il Laticauda o Laticaudo, di cui una buona produzione si riscontra nella zona interna dell’Alta Irpinia, a Casalbore. Siamo nella zona della Valle dell’Ufita – Baronia, dove i pascoli, come in tutto il sud, sono ancora una volta diversi che nelle altre zone della provincia e conferiscono al latte ovino caratteristiche non riscontrabili altrove.
Le pecore, provenienti da remoti incroci fra razze appenniniche autoctone e pecore di razza Barbaresca nord-africana, di cui conservano appunto la coda larga, sono allevate in piccoli poderi a conduzione familiare e hanno una buona resa sia in carne che in latte. Si tratta infatti di una razza prolifica, anche se ancora a rischio di estinzione, dalla carne delicata e sapida, mentre l’eccellente qualità del latte consente un’ottima caseificazione.
Il Laticauda è prodotto in forme cilindriche, con pezzature che vanno da 300 gr. per il formaggio fresco, fino a circa 5.5 kg. per il formaggio stagionato, lavorato ancora secondo i metodi tradizionali, rimasti inalterati nei secoli e tramandati di generazione in generazione. Il latte fresco appena munto viene riscaldato fino ad una temperatura di 35/40 gradi, quindi viene introdotto il caglio di agnello di Laticauda. La cagliata, giunta a maturazione, viene separata dal siero, che originerà la ricotta, e una volta rotta in piccoli grumi viene deposta a mano nelle fascere, dove viene pressata con le dita fino ad ottenere una massa compatta. Il formaggio viene infine messo in salamoia, pronto per essere consumato già dopo due giorni, oppure semistagionato dopo due mesi. Una stagionatura di almeno quattro mesi consente di apprezzarne a pieno l’odore e il sapore. Durante la fase di stagionatura, preferibilmente in cantina, la forma viene lavata con siero bollente e con acqua di pozzo. Quando il formaggio è maturo e comincia a “sudare”, cioè emette qualche goccia di liquido, viene unto con olio extra vergine di oliva, con una mistura di olio e peperoncino piccante, oppure con una salsa di peperoni che gli conferisce un caratteristico colore rosso.
Al termine della stagionatura il prodotto presenta una consistenza dura, a tratti farinosa, non aderente allo strumento di taglio, con grana fine e frattura a scaglie, priva di cavità interne ed imperfezioni. Il colore varia dal giallo paglierino al giallo brillante, in relazione al tenore di grassi, l’odore è intenso e il sapore è leggermente piccante.
Stagionato, si abbina bene a vini rossi corposi e tannici, come il Taurasi; meno stagionato gradisce vini bianchi secchi e maturi, come il Greco di Tufo.
Il massimo del piacere è la degustazione dei pecorini Irpini con i salumi locali e una fetta di pane contadino: un piacere semplice, che racchiude tutto un mondo di saperi, trasmesso lungo gli impervi sentieri della monticazione e della transumanza e custoditi dal popolo gentile dei moderni pastori.
Assolutamente consigliato sulla tavola di Pasqua.