Potremmo riassumerlo in quattro parole: il Salone Margherita era “il posto delle sciantose”. Ci si recava per divertirsi, per vedere belle ragazze, per sognare di essere all’ombra della Tour Eiffel.
Nel Salone Margherita si entrava per vivere in un sogno. Quello di trovarsi, magari, al Moulin Rouge, a Parigi. Perché il Salone era, sotto certi aspetti, un gran teatro onirico. Per primo, tra i cafè chantant in Italia, il Salone sotto la Galleria Umberto fece esibire ballerine di can-can. E poi, un po’ come succede per le ambasciate in paese straniero, varcando la soglia del Margherita si entrava magicamente in Francia.
La “lingua” del Salone Margherita
L’idioma del Salone Margherita era il francese. I “cartelloni” erano scritti in lingua d’Oltralpe, così come i menu che gli ospiti dovevano consultare per ordinare qualcosa da bere o da spuzzuliare. I camerieri, rigorosamente in livrea, parlavano soltanto il francese, ed anche i “clienti-spettatori” dovevano adeguarsi. Inoltre, gli artisti e le artiste che si esibivano prendevano spesso “di peso” il nome d’arte di qualche vedette parigina e lo facevano proprio.
Una nuvola di lusso e di ironia per “volare” fuori dal mondo
Insomma, ciò che accadeva al Salone Margherita era una lunga, dolce, immersiva finzione teatrale. Il Salone era uno di quei luoghi in cui, pirandellianamente, si è liberi – pur pagando in moneta – di smettere di essere ciò che si è, e di incominciare a diventare ciò che non si è mai stati.
Il Salone: una impressione a fuoco nella storia di Napoli
Chiunque ama la storia di Napoli, e ne cerca febbrilmente le fonti più profonde e sorgive, non può non “avvertire” che l’esperienza storico-artistica dei cafè chantant, e in particolare del Salone Margherita, sia “impressa a fuoco” per sempre nell’immaginario di una città intera. In questo senso si può constatare che tra quei tavolini e quelle luci soffuse si sia “consumato” – abbia “bruciato” – un qualcosa che difficilmente si concretizza, in una metropoli “spaccata in due” tra “borghesia” e “popolo”, quale è, drammaticamente, Napoli.
Avvertiamo, cioè, che come per un meraviglioso sortilegio questi “frammenti” di storia e di cultura – i cafè chantant ed il Salone Margherita – appartengano ad una memoria “mescolata”, finalmente ammiscata tra ‘e signure e ‘o popolino. Come ce ne accorgiamo? Beh, attraverso la musica.
La canzone napoletana e il Salone Margherita
Ebbene sì. Là, sotto la Galleria Umberto, simbolo della Belle époque italiana e napoletana, paradossalmente, incredibilmente, i “signori” si incontravano con il “popolo”. E creavano legami che non si sarebbero mai sognati. Nel Salone Margherita si costruivano, si spezzavano, si riavvolgevano, si sfilacciavano di nuovo, nodi e catene che “agganciavano” per sempre vite “borghesi” ed esistenze sbocciate in vicoli scuri, ma pronte a “mordere” quelle vite “diverse”, eleganti, che si accalcavano alle soglie dei caffè-concerto. Come il Salone Margherita.
E quante canzoni raccontano delle chanteuse, cioè delle sciantose, che con la loro bellezza e con la loro tenera, irresistibile malizia potevano conquistare il cuore di ogni uomo, da qualsiasi classe sociale egli provenisse. E a qualsiasi condizione sociale appartenessero loro stesse, le ammalianti attrici che riempivano una serata trasformando quel palcoscenico sotto via Verdi in un angolo di colorata allegria della Parigi degli Impressionisti e dei bohémien.
“Reginella”
Libero Bovio, nel 1917, ventisette anni dopo la fastosa inaugurazione del Salone Margherita (nel 1890), scriveva uno dei brani più famosi e “dolenti” del repertorio classico napoletano. Erano cambiati i tempi, c’era la guerra, la terribile Grande Guerra, ma il tormento e la nostalgia del protagonista maschile dei versi di Bovio riguardano altro: hanno per oggetto un amore perduto. Un amore soffiato via, scemato come un angolo di frescura nel momento in cui il sole si libera delle nuvole, e si ripresenta alto nel cielo. Quasi a sottolineare, prepotente, violento, la realtà.
“Te si’ fatta ‘na vesta scullata/ Nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose/ Stive mmiezzo a tre o quatto sciantose/E parlave ‘o ffrancese… è accussì?/Fuje ll’autriere ca t’aggio ‘ncuntrata/Fuje ll’autriere a Tuleto, ‘gnorsì…(…)”.
L’amore tra il personaggio di Bovio e la ragazza che è diventata una ballerina del cafè chantant è stato probabilmente un fuoco di paglia, una fiamma fatua. La ragazza ora, a quanto pare, è tutta presa dal suo ruolo di attrice e ammaliatrice, e si gode – anche ridenno e pazzianno degli uomini che le vanno appresso – la sua giovinezza.
Il destino di un sentimento e il “sogno assurdo” del Salone Margherita
Non c’è giudizio nei versi di Libero Bovio, sia subito chiaro. La giovane ha trovato una realtà che la fa sentire importante, al centro dell’attenzione, e sembra serena, “piena” della forza di quella gioventù a cui ha diritto. Siamo a via Toledo. Forse lavora proprio al Salone Margherita. Là vicino.(Esistevano anche altri cafè chantant).
Dalla canzone – come succede spessissimo nei brani napoletani “classici” – non riusciamo a capire a quale ceto sociale appartenga il personaggio maschile, o almeno quale sia il suo livello culturale. Se quello del “cantore” – lo stesso Bovio, e in questo caso l’uomo (o il ragazzo) sarebbe un letterato – o quello di un giovane dei quartieri popolari. Ma d’altronde compiere cesure di questo tipo non è possibile, perché i poeti, a Napoli, scrivevano volentieri, ed orgogliosamente, in lingua napoletana.
È anche per questo che le canzoni che ci riportano al Salone Margherita e ai suoi anni “magici” ci raccontano di quella straordinaria “mescolanza” di vite e di destini che spesso unì, attraverso sentimenti forti (disperati ed impossibili?) quelle “due Napoli” che altrimenti non si sarebbero mai incontrate.
“Lily Kangy”
Un brano famosissimo del 1905 (di Gambardella–Capurro) presenta, stavolta in maniera assolutamente ironica e divertente, la storia di un’altra sciantosa. Fu interpretato, in realtà, dal “macchiettista” Nicola Maldacea, ma esprime benissimo quello che era il “curriculum” di tante ballerine dei cafè chantant, e dunque del Salone Margherita, le quali provenivano dai quartieri popolari, e “si facevano un nome” al Salone.
Alcuni versi: “Mo nun so’ cchiù Cuncetta, ma so’ Lilì Kangy, sciantosa prediletta, avite voglia ‘e dì […]”. Ma la vera “esplosione” delle “contraddizioni” insanabili e spassose di quel mondo tuttto di fantasia va cercata nel ritornello: “Chi mme piglia pe Frangesa, chi mme piglia pe Spagnola/ Ma so’ nata ô Conte ‘e Mola, metto’a coppa a chi vogl’ i’(…)”.
Dai bassi… alla conquista di Napoli
Il Vico Conte di Mola è una strada dei Quartieri Spagnoli, dunque fa parte di una zona in cui la vita s’imparava mmiez’ ‘a via, come diremmo a Napoli. Ed ecco perché Lilì sottolinea che, nonostante debba “recitare” una parte aggraziata e ammaliante, per giunta masticando il francese, nessuno deve dimenticare che è una donna “di strada”, e non si farà mettere mai “i piedi in testa” da nessuno.
La crisi
Il Salone Margherita entrò in crisi allo stesso modo in cui muore un sogno. La fine della Belle Èpoque, prima ancora che il diffondersi di altri tipi di intrattenimento, quali la sceneggiata, segnò il declino dei cafè chantant, e dunque del “re” di questi ultimi, il Margherita. Era vicina la terribile Prima Guerra Mondiale, gli “spiriti” cambiavano, quasi ne avvertissero i “miasmi” di morte, da lontano.
Una esperienza artistica ha bisogno di “cuori liberi” per nascere e vivere. E quello del Salone Margherita era stato – e forse lo era ancora – un bellissimo sogno. Una pièce teatrale durata più di vent’anni, tutto sommato. Un sogno di amori, trasgressioni, sentimenti nuovi e stimolanti, che era riuscito ad intrecciare persino le due Napoli separate dallo spesso muro che le divide ancora oggi. La Napoli della cultura e la Napoli del popolino, diciamo così.
Questo sogno si era consumato in fretta, ma era stato pur sempre un sogno bellissimo. Gli angoli di luce, calda e accecante, di quel sogno, rimangono vivi nelle nostre canzoni.